IO, DANIEL BLAKE di Ken Loach
Come sempre dalla parte del proletariato e delle classi meno abbienti, Ken continua a ‘mostrare’ quella rabbia, che lo accompagna fin dagli anni Sessanta, di chi vede consumarsi ingiustizie continue, e attraverso storie di disagio, povertà e ribellione, continua a coltivare il sogno di veder migliorare la condizione dei più deboli. Il nuovo lavoro del regista inglese mette alla berlina un sistema burocratico, quello della sua terra d’origine, che solo apparentemente sembra essere una ‘macchina’ funzionante ed inflessibile, mentre invece – viene mostrato in relazione all’annosa questione del sussidio di disoccupazione che riguarda il protagonista del film – il sistema è soffocante, si accartoccia su se stesso per via di cavilli procedurali che si contraddicono, al punto che si possono produrre conseguenza inattese e talvolta tragiche. Una volta di più ci si sorprende come certe cinematografie riescano a costruire film emozionanti e coinvolgenti prendendo spunto da semplici elementi della vita quotidiana e non affidandosi al Fantasy, all’Avventura, al Thriller o a Commedie improbabili. Una considerazione che ovviamente chiama in causa il nostro cinema incapace di darsi un respiro ‘appena’ europeo. E il cinema di Ken Loach ===Consulta la Filmografia=== come sempre non tradisce chi se n’è appassionato – ed io tra costoro – ed ogni suo nuovo film diventa un appuntamento piacevole ed irrinunciabile. Loach rimane uno dei pochi, se non l’unico, ancora volitivamente in grado di ‘dire qualcosa di sinistra’, come invocava Nanni Moretti in “Aprile”, e a lui va tutta la nostra ammirazione di cinefili intrigati da un cinema a misura d’uomo. Kenneth “Ken” Loach (Nuneaton, 17 giugno 1936), vincitore di due Palme d’Oro, una al Festival di Cannes nel 2006 (“Il vento che accarezza l’erba”) e una nel 2016 (“Io, Daniel Blake”), più il Leone d’Oro alla Carriera alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1994, ha dedicato la sua opera cinematografica alla descrizione delle condizioni di vita dei ceti meno abbienti. Durante la conferenza stampa di presentazione di “Io, Daniel Blake” al Festival di Cannes, la Gran Bretagna non aveva ancora deciso se uscire dall’Unione Europea (il referendum ci sarebbe stato il 23 giugno) e il regista aveva affermato che la Brexit sarebbe stata una questione complicata e avrebbe portato ad un governo di estrema destra. “Io, Daniel Blake” è un grande film che giustifica in pieno l’assegnazione della prestigiosa Palma d’Oro a Cannes nello scorso maggio, colpisce lo spettatore nel profondo e mette a nudo problematiche che in un modo o in un altro ci riguardano da vicino, oltre a costituire cartina tornasole d’un vibrante grido d’allarme nei confronti delle politiche europee, ed inglesi nello specifico, nei confronti delle classi più disagiate; con la classe media e quella operaia che stanno sprofondando nella povertà. È un dato incontestabile che sia difficile trovare un lavoro e/o reinventarsi dopo i 50 anni, ancor più se si è malati. Il protagonista, Daniel Blake appunto, avanti negli anni (ha 59 anni) e vedovo, è un carpentiere di Newcastle dal temperamento deciso, ha avuto un infarto e il suo medico gli ha vietato di riprendere il lavoro. Lui si rivolge allo Stato per ottenere un sussidio di invalidità e, vistosi negare questo, uno statale di disoccupazione. A questo punto entra in gioco la burocrazia per il tramite dell’assistenza sociale che non gli vuol riconoscere lo status di malattia. Illuminante è a proposito, sui titoli di testa e schermo ancora buio, il dialogo dai toni quasi surreali tra Daniel e una funzionaria che immediatamente ci catapulta nella problematica affrontata e anticipa l’odissea cui il poveretto sarà costretto nello svolgersi della narrazione. Paradossalmente, per regole ferree, Daniel è costretto comunque a cercarsi un lavoro per poter sopravvivere. Nel tentativo kafkiano di procurarsi un impiego, così come gli viene imposto dal sistema, oltre che rivendicare i suoi diritti, e con assoluta mancanza di dimestichezza con l’informatica, Blake (interpretato magnificamente da Dave Johns) deve misurarsi con questo (per tanti) diabolico strumento solo perché così vuole una burocrazia implacabile, che vorrebbe mostrasi efficiente mentre trascura le più elementari regole del buon senso ed è incapace di mettersi realmente al servizio della gente. Il concetto di “cittadino” insomma viene inequivocabilmente calpestato. L’uomo, con disponibilità e senso civico del dovere, cerca di risolvere i suoi problemi ma deve fare i conti con i continui intralci burocratici che tendono a respingerlo. E se qualche impiegato degli uffici di collocamento mostra sensibilità e partecipazione umana questi poco possono fare dinanzi ad una macchina che è cieca e inesorabile. Strada facendo Daniel si smarrisce e perde progressivamente tutte le sue certezze, e va alla deriva. Nel frattempo stringe amicizia con Katie (interpretata da una convincente Hayley Squires), una giovane madre single in difficoltà economiche, che ha due figli da far crescere con dignità e cerca di dar loro una mano; perché uno degli elementi chiave di tutto il cinema di Ken Loach è rappresentato dalla solidarietà che sempre prende forma tra i ceti sociali più disagiati. La donna disperata e affamata suo malgrado è costretta dagli eventi a infangare la propria esistenza. Nel finale del film, quando Daniel – personaggio meraviglioso e ricco di umanità, e che crea empatia nello spettatore – prova rendere pubblica la propria condizione con i poveri strumenti a sua disposizione, emerge veemente il senso profondo e significativo di quell’Io posto nel titolo prima del nome e cognome del protagonista. Una testimonianza di dignità che è il messaggio forte del film. Ken Loach, giunto a Roma per presenta “Io, Daniel Blake” alla stampa, nell’affermare che “A guidarmi è sempre il piacere di fare cinema” poi, a proposito del suo film, sollecitato dai giornalisti, ha insistito sui temi a lui cari “Dobbiamo assolutamente fare nostro il concetto di cittadino; il vero problema è che c’è un immobilismo da parte degli stati europei sulla strada della soluzione dei problemi comuni per tanta gente, perché i governi sono schierati a salvaguardare gli interessi dei potenti e dei più ricchi; il precariato ha un valore economico per le grandi imprese, mentre è un disastro per la classe operaia. Emerge l’idea che se si è poveri la colpa è esclusivamente di chi lo è e che non fa abbastanza per ‘trovarsi’ un lavoro. Tutto ciò rende la gente comune più fragile e vulnerabile; è sintomatico il fatto raccontato nel film che se non si ha un lavoro – come capita al malcapitato Daniel – è solo perché non si è saputo redigere un curriculum on-line o ci si è presentati in lieve ritardo ad un colloquio. Sono tutte scuse perché la realtà è che non ci sono posti di lavoro, e quel poco che è disponibile non permette in alcun modo di avere una vita dignitosa e uno stipendio adeguato a chi ha pochi mezzi”. Proseguendo poi: “La complessità della macchina burocratica è fortemente ‘voluta’ dal governo che punta a confondere le persone. Nelle scene girate nell’ufficio di collocamento, tutti coloro che siedono dietro le scrivanie sono attori non professionisti che un tempo lavoravano in quel tipo di uffici e che poi hanno lasciato considerandoli luoghi troppo disumani. C’è poi da aggiungere che l’eco mediatico sollevato dalla vittoria del film a Cannes renderà difficile per il governo inglese sottrarsi alle responsabilità evidenziate”. Ed alla domanda se in qualche modo si sentisse ‘alla vecchia maniera’ Ken ha risposto con un sorriso: “Mi sono sentito ‘antichissimo’ non appena ho messo piede a Roma, e forse è il mio modo di vestire a dare questa sensazione; in verità mi sento meno ‘old fashion’ di quanto si possa credere perché in Gran Bretagna il nuovo movimento della sinistra è guidato da un gruppo di giovani che mi trasmettono grande energia”. Però prima di congedarsi dalla stampa Loach ci ha tenuto a ribadire il valore artistico del suo film, costruito su una storia e su personaggi universali nei quali è possibile riconoscersi: “Il mio film è nato dalla rabbia che io e Paul Laverty – co-autore della sceneggiatura; N.d.R. – abbiamo provato nel vedere cosa sta succedendo nel nostro paese, dove il tessuto sociale si sta sfaldando, ma non dovete dimenticare che ci ha guidato anche il piacere di fare cinema, attraverso la scrittura, il lavoro svolto sul set, il dialogo con gli attori, il tentativo di dare il giusto peso alla fotografia e al montaggio, insomma a tutti quegli elementi che compongono un’opera cinematografica”.
(Luigi Lozzi) © RIPRODUZIONE RISERVATA
(immagini per cortese concessione di Cinema/Valerio De Paolis)
Io, Daniel Blake
(I, Daniel Blake, Gran Bretagna/Francia/Belgio, 2016)
Regia: Ken Loach
Genere: Drammatico
Durata: 100’
Cast: Dave Johns, Hayley Squires, Dylan McKiernan, Briana Shann, Kate Rutter, Sharon Percy, Kema Sikazwe.
Sceneggiatura: Paul Laverty
Direttore della Fotografia: Robbie Ryan
Montaggio: Jonathan Morris
Musica: George Fenton
Costumi: Joanne Slater
Produttore: Rebecca O’Brien
Produttori esecutivi: Pascal Caucheteux, Gregoire Sorlat, Vincent Maraval
Direttore di produzione: Eimhear McMahon
Responsabili di produzione: Fergus Clegg e Linda Wilson
Tecnico del suono: Ray Beckett
Distribuzione Italia: Cinema di Valerio De Paolis
Data di uscita: 21 ottobre 2016