Musica

CD-Teca Ideale: TALKING TIMBUKTU di Ali Farka Touré & Ry Cooder

 

 

ARTISTA: ALI FARKA TOURE’ & RY COODER
TITOLO: Talking Timbuktu
ETICHETTA: World Circuit/IRD
ANNO: 1994

 

 

Nel docu-film “Dal Mali al Mississippi” (“Feel Like Going Home“), firmato da Martin Scorsese (che nel 2003 ha curato la realizzazione di sette film dedicati al Blues e diretti da sette registi diversi), viene ribadita la tesi secondo la quale le autentiche radici di uno dei generi musicali nordamericani più importanti e seminali (la ‘musica del diavolo’, appunto, che avrebbe in seguito costituito la base per i generi più moderni come il jazz, il rhythm & blues, il rock’n’roll, il soul e l’hip-hop) non vadano ricercate nei campi di cotone del Mississippi bensì, in un viaggio a ritroso nel tempo e geograficamente ad est del continente americano, sulle sponde del fiume Niger, nel Mali, in Africa occidentale, terra millenaria di cantastorie (i ‘griot’) che andavano di villaggio in villaggio a tramandare oralmente la loro musica, ma anche luogo da cui un tempo le popolazioni venivano deportate al di là dell’oceano. Viene così rivelata una verità a lungo taciuta o (volutamente) negata: «Non esistono i neri americani, ma solo neri in America». Ma ad aprire la strada a questa consapevolezza, che oggi non sorprende più nessuno, era stato in tempi non sospetti Ry Cooder, che l’incessante lavoro di ricerca delle ‘roots’ aveva condotto in Africa nel 1994 (qualche anno prima di approdare a Cuba per riscoprire i ‘nonnetti’ del Buena Vista Social Club) al cospetto di Ali Farka Touré, principe maliano (nato a Nyafunkè, villaggio vicino Timbuktu, da una nobile famiglia) che è scomparso nel marzo del 2006 dopo essersi ritirato presso il proprio villaggio (per provvedere ai bisogni alimentari della sua gente) tornando a fare il contadino: il Mali, terra di sabbia e fango, è tra i paesi più poveri del mondo. Il frutto della collaborazione tra Cooder e Ali Farka Touré (le session di registrazione si sono tenute negli Usa) è il magistrale “Talking Timbuktu”, un autentico gioiello in cui si celebra l’incontro tra due mondi solo apparentemente diversi, nel nome di un idioma comune, di inequivocabile matrice Blues. Un album ricco di suggestioni dal quale si sprigiona la magia di un suono che intreccia il dialogo delle chitarre dei due protagonisti (Ry, un po’ più defilato com’è sua abitudine in questi casi, accompagna e asseconda Touré), la timbrica originale delle soluzioni musicali, con un tappeto sonoro fatto di percussioni africane ed altri strumenti tradizionali; un sound che si impossessa lentamente dei nostri sensi per non abbandonarli più, attraverso dieci brani dilatati, lenti, ipnotici. E il musicista maliano all’epoca della realizzazione dell’album dichiarava: «Quello che voi chiamate blues, per me è sonhai, tanghana, tradizioni musicali del mio paese, se Hooker rappresenta i rami e le foglie, io sono le radici e il tronco. Il blues è la musica che l’America ha fatto propria senza riconoscere il suo debito verso l’Africa». L’opera di Ry Cooder, la sua attitudine conclamata, l’impegno profuso nel gettare un ponte tra la musica tradizionale africana e quella vernacolare americana (e lo è tutte le volte che i suoi studi e la passione che dedica al suo lavoro ci permettono di scoprire perle trascurate o neglette), è stata altamente meritoria. Intanto con questo disco (del quale è stato anche produttore) abbiamo avuto modo di conoscere l’arte di Touré; lo ascoltiamo esprimersi in undici lingue diverse, suonare sia la chitarra elettrica che quella acustica, il banjo, la njarka e percussioni varie. Ad assecondare musicalmente i due protagonisti (da parte sua Cooder canta e suona, oltre alla chitarra, il mandolino, la fisarmonica e le marimba) troviamo una formazione all-star di session man composta da John Patitucci al basso, il fidato Jim Keltner alla batteria, l’iconico  Clarence ‘Gatemouth’ Brown alla chitarra più altri percussionisti e musicisti africani (come Hamma Sankare e Oumar Touré). Intanto l’album non va apprezzato per qualche pezzo che si eleva distintivamente sugli altri, ma per l’insieme, per l’impatto emozionale e il coinvolgimento che procura a coloro che si immergono nell’ascolto, attraverso un percorso sinuoso ipnotico, la circolarità del blues, la dilatazione della forma e la dolente dolcezza del contenuto. Presi individualmente comunque i brani sono tutti dei piccoli capolavori, con i riff insistiti e le magnifiche strutture armoniche. Direi che il ‘traditional’ “Diaraby” in bellezza è la migliore delle chiusure possibili. Un disco che a quasi venti anni dalla sua uscita conserva integre tutta la sua freschezza e le prerogative culturali che l’hanno reso fondamentale per un approccio consapevole (da parte di noi occidentali) alla realtà musicale del continente africano. Ali Farka Touré è morto il 6 marzo del 2006, all’età di 66 anni, a causa di un tumore alle ossa che lo affliggeva già da qualche anno.

 

(Luigi Lozzi)                                                © RIPRODUZIONE RISERVATA