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ROCKY IV di Sylvester Stallone in 4K ULTRA-HD

 

 

 

 

Dopo il successo della trilogia di “Creed” è tornata in auge la figura del personaggio cinematografico di Rocky Balboa, ideato e interpretato da Sylvester Stallone. Così la Warner Bros. Entertainment celebra la saga per eccellenza sulla boxe con una serie di pubblicazioni in 4K Ultra-HD dei primi quattro titoli (sui sei complessivi) usciti tra il 1976 e il 1985. Nel dettagli abbiamo scelto di prendere in considerazione il “Rocky IV”, del 1985, che dal punto di vista tecnico (e immaginifico) è forse il più significativo della serie: negli anni è diventato più di ogni altro il simbolo della vita cinematografica dell’eroe Rocky Balboa. La scelta del quarto capitolo della mitica saga è stata dettata pure dal fatto che questa edizione contiene la chicca della “Director’s Cut” voluta da Stallone nel 2021 e intitolata “Rocky IV: Rocky vs Drago”.

La saga cinematografica di Rocky è tra quelle di maggiore successo nella storia del cinema, sia per quanto riguarda apprezzamento di critica che riscontro di pubblico. Si trova al 12º posto nella classifica dei più grandi incassi delle saghe del cinema con quasi 3 miliardi di dollari tra cinema e diritti successivi. La saga, incentrata sul pugilato, si è sviluppata in un arco temporale che va dal 1976, anno dell’esordio sugli schermi del pugile italo-americano, al 2023. La trilogia più recente, spin-off di “Rocky”, annovera “Creed – Nato per combattere” (2015), diretto da Ryan Coogler, “Creed II” (2018), diretto da Steven Caple Jr., e “Creed III” (2023) diretto ed interpretato da Michael B. Jordan. I primi due hanno avuto come protagonisti Michael B. Jordan e Sylvester Stallone mentre il terzo il solo Jordan, impegnato pure alla regia come esordiente. Un’appassionante epopea incentrata su una storia davvero avvincente, colma di buoni valori ed grandi virtù. il personaggio di Rocky Balboa un trentenne di Filadelfia con la passione per il pugilato, uomo generoso e dal cuore grande, nasceva nel 1976 da una sceneggiatura dello stesso Stallone. Rocky abitava in un piccolo e fatiscente monolocale in una anonima zona residenziale dei sobborghi della città e, a dispetto delle sue potenzialità da atleta, aveva inizialmente scelto una vita da bullo di periferia. Ma nel destino di Rocky c’era scritta una miracolosa ascesa verso un successo insperato ed inatteso, raggiunto grazie ad una buona dose fortuna ma perseguito anche (con merito) in virtù di un carattere forte e di un’immensa determinazione: Rocky si troverà a sfidare il campione del Mondo dei pesi massimi Apollo Creed in due occasioni, senza però riuscire mai ad affrancarsi da un’esistenza difficile e tormentata. Una vita che Rocky condivide, oltre che col burbero allenatore Mickey, con Paulie Pennino, il suo migliore amico impiegato in un mattatoio di Philadelphia, e Adriana, la sorella minore di Paulie, una ragazza molto timida e introversa, che oltre a diventare sua moglie sarà il pilastro portante dei suoi successi da campione. E’ tornato diverse volte sul ring, e sugli schermi di tutto il mondo, Rocky Balboa, alias Sylvester Stallone, suo creatore ed interprete, il pugile dei bassifondi di Philadelphia che ha costruito una delle icone più solide e longeve nell’immaginario cinematografico collettivo, in primis quello americano che di simili eroi ha (per necessità) avuto sempre bisogno. A rappresentare il ritorno ai grandi temi del mito americano: chiunque in America abbia abbastanza cuore e buone ragioni può fare l’impossibile. Il personaggio ha rivissuto sei volte volta nella fortunata saga (più altre tre con il franchise di “Creed”); fortemente voluto da Stallone nel tentativo di dare nuovo lustro al pugile italoamericano ma anche per rinverdire i fasti che hanno accompagnato ‘Sly’ nei momenti più gloriosi della sua carriera. Di pari passo negli anni si è portata avanti pure la saga di “Rambo”, l’altra serie amatissima dell’attore, che ha inanellato cinque capitoli tra il 1982 e il 2019. Certo a nessuno è sfuggito quanto sia stato rischioso (al punto da sfiorare il patetico) portato all’estremo un simile ‘revival’: l’età dell’attore che si faceva fatica ad immaginare ancora una volta sul ring, il rischio più che probabile di non sostenere il progetto con un’adeguata sceneggiatura, il mutamento dei tempi (forse) non più adatti ad esaltare le avventure di un personaggio romantico come Rocky ma inevitabilmente imbolsito, il clamoroso flop del quinto episodio che aveva convinto tutti a non procedere oltre. Ma Sylvester Stallone ===Consulta la Filmografia=== e l’industria cinematografica sono riusciti ad uscire vincitori su ogni perplessità ed oggi la saga di Rocky Balboa, in virtù di una sapiente gestione, è più viva che mai. La chiave di lettura scelta per il capitolo sei del 2006 (“Rocky Balboa”) ha consentito di non far apparire ridicola e incongruente la narrazione (anche perché ‘Sly’, nei passaggi più impegnativi, si è sottoposto ad un lungo e durissimo allenamento) che è plausibile pur con tutti i ‘se’ e i ‘ma’ del caso: l’ennesimo inno alla retorica con l’autocelebrazione della propria saldezza morale. In effetti, nelle intenzioni di Stallone (è lui stesso ad aver diretto e sceneggiato il film), si trattava di chiudere il cerchio e di mettere la parola fine all’epopea del pugile; da qui la scelta di non siglare con un ‘6’ questo capitolo finale. «Il mondo avrà sempre bisogno di eroi – aveva dichiarato Stallone -; persone normali che fanno cose straordinarie. Non necessariamente con i muscoli, magari in nome dell’amore. Per questo volevo che questo film fosse semplice, con un eroe semplice». Rocky, rimasto vedovo (della sua Adriana), è un ex-campione disilluso e solitario che gestisce un piccolo ristorante nei sobborghi di Philadelphia; intrattiene i clienti (divertiti) con racconti di boxe. Spinto dalla necessità di denaro, per porre rimedio ai debiti che lo affliggono, infila di nuovo i guantoni per piccole esibizioni con modesti pugili. A far cambiare lo stato delle cose, ed offrirgli l’ultima carta di un patetico sogno americano di riappropriazione del proprio passato, provvede uno scontro virtuale sul computer gestito da giornalisti secondo il quale il miglior Balboa batterebbe l’attuale Campione del Mondo in carica Mason ‘The Line’ Dixon. Dal virtuale al reale il passo è breve e contro ogni logica (anagrafica), Rocky riprende ad allenarsi quando Dixon, per umiliarlo, gli offre l’opportunità di affrontarlo in un match valido per il titolo. Con molto buon senso si è evitato di farlo trionfare sul quadrato, ma di assegnargli solamente una vittoria morale (che sarà anche una lezione di vita per il giovane e arrogante rivale), anche perché ad un occhio attento tutto poteva apparire stucchevole e privo della necessaria ironia. Ma tant’è; i percorsi dei consumatori di cinema si sono fatti così diseguali che diventa il più delle volte difficoltoso porvi un qualche ordine etico. La lezione edificante (di grana grossa) che il film ha voluto comunicare è che non bisogna mai rinunciare ai propri sogni e per raggiungere gli autentici obbiettivi della vita ci vogliono cuore e passione. «Non è tanto importante colpire – dice Balboa al figlio – quanto resistere ai colpi; poi sapersi rialzare e continuare a combattere». Approccio convenzionale e ‘old fashion’. Da dire, comunque, che lo spettacolo (cinematografico) è assicurato ed onesto. L’iniziale “Rocky”, su un soggetto dello sconosciuto Stallone era del 1976, tre anni più tardi c’era “Rocky 2”, con il quale proseguiva la sfida con Apollo Creed, avviata col primo episodio, diventando Campione del Mondo; in “Rocky 3” (1982) affrontava il temibile Clubber Lang (Mister T) aiutato proprio dall’ex nemico Creed ed in “Rocky 4” (1985) le gesta dell’eroe si globalizzavano in salsa ‘Guerra Fredda’ per la sfida con il pugile russo Ivan Drago (Dolph Lundgren) – celebre la battuta di quest’ultimo «ti spiezzo in due» rivolta a Stallone – e infine “Rocky 5” (1990) nel quale si confrontava con un suo allievo. Nel 1977 “Rocky” vinse tre Oscar: Regia, Miglior Film e Montaggio (inoltre Stallone ottenne la ‘nomination’ come Miglior Attore Protagonista e Burt Young quella di Miglior Attore non Protagonista). John G. Avildsen pose la firma in calce al primo ed ultimo episodio mentre l’attore si occupò anche della regia per gli altri tre. Ma la presenza sul grande schermo di Rocky, viene affiancata dai tantissimi film che il Cinema, nella sua storia ultracentenaria, ha dedicato alla Boxe. Quello americano soprattutto è riuscito a raccontare con profonde implicazioni psicologiche le vicende di tanti atleti, è stato abile nel mostrare la tensione agonistica e la voglia di vincere; lo ha fatto con enfasi melodrammatica, con lucida analisi del divismo sportivo, ha mostrato l’ascesa e la caduta di numerosi miti con desolato realismo, sfruttando principalmente i temi ricorrenti della solitudine obbligata dell’atleta, della sua manipolazione come strumento di propaganda, i contrastati rapporti che di solito si instaurano con l’allenatore, la ricaduta in ambienti loschi, l’agonismo esasperato che minaccia la sfera del privato, l’orgoglioso riscatto. Sul grande schermo ha privilegiato storie di trionfi e fallimenti, di riscatto dall’emarginazione (da “Stasera ho vinto anch’io”, del 1949, di Robert Wise, a “Toro scatenato” di Martin Scorsese del 1980 a “Cinderella Man” del 2005). Nessuno sport si presta ad essere sviscerato al cinema più della boxe. Sport che nell’immaginario collettivo costituisce la più convincente delle metafore della difficoltà di vivere e talvolta della sana virilità; naturalmente sono stati soprattutto gli americani a reiterare nel tempo il loro feeling con questo sport che, con ogni probabilità, è stato quello con il quale si sono meglio identificati per la natura sofferta della materia trattata, per l’ineluttabile solitudine che accompagna i protagonisti verso il proprio destino (sportivo ed umano). Fin dagli albori del cinema ad oggi i film di ambientazione pugilistica si sono susseguiti suscitando sempre l’interesse del pubblico. Ricordiamo Buster Keaton in “Io e la boxe” (1926) o Charlie Chaplin nello splendido “Luci della città”. In quest’ultimo, all’insegna del non ci si deve scoraggiare, Charlot sale sul ring, nonostante la fragilità del suo personaggio, per guadagnare i soldi necessari e permettere alla sua amata di riacquistare la vista. Un pugile caduto nella polvere a causa di una vita sregolata si riscatta per amore in “Il campione del ring” (1925, John Ford) con George O’Brien come protagonista, che in effetti aveva dato di ‘boxe’ prima di diventare attore, infatti le scene filmate sono quanto mai credibili e realiste. Della partita è anche l’irlandese Victor McLaglen, uno dei caratteristi preferiti da Ford ed ex campione inglese dei pesi massimi. E sempre Ford si ripete con “Il lottatore” (1932), con Wallace Berry, dove si narra del lottatore tedesco Polakai, forte sul ring ma tenero di cuore e facile preda di raggiri. Beery l’anno prima aveva vinto un Oscar con il pugile di “Il campione”. Come potremmo dimenticare “Lassù qualcuno mi ama “ con Paul Newman (in una parte che era stata scritta per James Dean), la storia di Rocky Graziano, un giovane italoamericano che conosce la miseria ed i disagi di una esistenza difficile e, proprio quando sembra essere sul punto di arrendersi, ecco che il ring gli offre l’occasione di un riscatto. E nelle parole del protagonista trionfante alla moglie – «Godiamoci questo momento, tanto prima o poi il titolo lo perderò» – si può cogliere la vera essenza del gradimento del pubblico nei confronti del cinema-boxe. I protagonisti sono sovente in balia della malavita (John Garfield nello splendido e realista “Anima e corpo”,1947, di Robert Rossen) o in mano a biechi speculatori (“Una faccia piena di pugni” di Ralph Nelson, con Anthony Quinn), oppure si fronteggiano, uno al tramonto, l’altro all’esordio (Stacy Keach e Jeff Bridges) in “Città amara – Fat City” (1972) di John Huston, lucida e sconsolata messa in scena dei risvolti amari dell’altra faccia del sogno americano, in un magnifico momento di cinema con Huston al massimo della sua espressività. Errol Flynn indossa i guantoni in “Il sentiero della gloria” (1942) di Raoul Walsh nei panni di James Corbett che tolse il titolo dei massimi a John L. Sullivan, battendolo per KO al ventunesimo round nello storico incontro del 7 settembre 1892 a New Orleans. La materia interessa anche Hitchcock in “Vinci per me!”, un film muto del 1927. In “Stasera ho vinto anch’io”, di Robert Wise, il protagonista è costretto a combattere in incontri truccati per sbarcare il lunario, ma in un impeto d’orgoglio dinanzi alla donna amata, si impegna a vincere ben conscio dei problemi che si generano con la malavita. È uno dei 3 o 4 film sul pugilato passati alla storia, un piccolo gioiello a basso costo interpretato magnificamente da Robert Ryan e premiato a Cannes per la sceneggiatura dell’esordiente Art Cohn, un giornalista sportivo. Come non ricordare poi “Il colosso d’argilla” (1956), di Mark Robson, ultimo film interpretato da Humphrey Bogart nel ruolo di un cronista sportivo. Ne “Il campione” Franco Zeffirelli tratteggia la personalità di un pugile che torna sul ring dopo tanti anni per riconquistare la stima del figlio, pagando con la vita il suo gesto coraggioso mentre un capitolo fondamentale di questa storia è “Il grande campione”, di Mark Robson, interpretato da Kirk Douglas nel 1949, Leone d’Oro a Venezia e Oscar per il montaggio. Ma il miglior film di ambientazione pugilistica della storia del cinema, ed entriamo nell’epoca contemporanea, è certamente “Toro Scatenato” di Martin Scorsese del 1980, con un Robert De Niro semplicemente monumentale nei panni di Jake La Motta. Il regista suggerisce la dimensione sociale di sfruttamento della boxe, mostrandone il funzionamento, con acuta finezza, attraverso la storia del campione mondiale dei pesi medi Jake La Motta, detto “il toro del Bronx” per le furenti capacità di picchiatore, ma soprattutto di incassatore, l’orgogliosa sua volontà di non piegarsi sotto i colpi micidiali del suo avversario più difficile, Ray Sugar Robinson, cui cedette il titolo conquistato nel 1949, contro Marcel Cerdan, il 14 febbraio 1951. Robert De Niro si è preparato alla parte con un puntiglioso allenamento e aumentando di una trentina di chili il suo peso con una leggendaria dieta ingrassante a base di patate, ed è sensazionale nella paranoica furia con cui s’è calato nel personaggio. Oscar a lui come miglior attore e a Thelma Schoonmaker per il montaggio. E’ del 1997 “The Boxer” di Jim Sheridan, con uno straordinario Daniel Day-Lewis che interpreta un’ex promessa del ring, ex membro dell’IRA che ha trascorso 14 anni in carcere. C’è poi “Hurricane” di Norman Jewison (1999), con un’eccellente interpretazione di Denzel Washington nei panni di Rubin “Hurricane” Carter, pugile nero di grande talento, accusato di un triplice omicidio sulla base di prove inesistenti, condannato nel 1967 all’ergastolo da una giuria di soli bianchi e nel 1988 dichiarato innocente e scarcerato, vedendo così rovinata per sempre la sua vita e la sua carriera, assurto al rango di simbolo della lotta contro il pregiudizio razziale ed oggetto di un’appassionata ballata di Bob Dylan negli anni ‘70. Quindi “Alì” (2002) di Michael Mann, in cui viene trattata la vita (e la carriera) di Cassius Clay, o meglio Mohammed Alì dopo la clamorosa conversione all’islamismo, storia perfetta per diventare un soggetto cinematografico. Campione dei pesi massimi Mohammed Alì è considerato il più grande pugile tutti i tempi, un uomo che con l’esempio della sua vita e con i suoi messaggi ha suscitato l’interesse delle masse, diventando icona della protesta nera, simbolo di lotta contro il sistema. Sul grande schermo Alì ha le fattezze di Will Smith il quale sognava da tempo di infilarsi i guantoni del mitico pugile ed ha tenuto a dichiarare tutto il suo rispetto per il campione: “Per prima cosa ho dovuto imparare a combattere. Poi a combattere come lui. Poi a essere come lui”. E sempre Cassius Clay è protagonista del film-documentario “Quando eravamo re” (1996, di Leon Gast) che tratta la ricostruzione dell’incontro di boxe, valevole per il titolo mondiale dei pesi massimi, da lui vinto, contro George Foreman, un ‘black’ ma in quell’occasione simbolo del potere ‘bianco’, a Kinshasa (Zaire) il 30 ottobre 1974. Al materiale filmato da Gast nel 1974 a Kinshasa s’aggiungono varie interviste ad intellettuali e personaggi della cultura ‘nera’ che vent’anni dopo commentano l’avvenimento. E’ un film sul mito, sulla leggenda, sul significato simbolico, sociale e politico di Alì, in lotta contro quell’America dei padroni bianchi che nei secoli avevano ridotto i neri ad una seconda schiavitù. Ma non finisce qui; c’è da considerare pure “Io sono il più grande” (1977, Tom Gries) con Alì nella parte di se stesso, dove si mescolano frammenti autentici degli incontri con parti recitate. E “Cinderella Man” (2005), di Ron Howard, ambientato nell’America della Grande Depressione, con uno splendido Russell Crowe; la storia di James J.Braddock, chiamato Cenerentola, per essere passato dalla povertà alla corona dei pesi Massimi, sconfiggendo il campione Max Baer con l’enorme sua forza di volontà. Ma esistono anche esempi al femminile. La giovane Michelle Rodriguez sfoga la sua ira contro il mondo crudele fino a che non scopre nel pugilato una valvola di sfogo che non le faccia commettere imperdonabili errori in “Girlfight” di Karyn Kusama. Un buon esempio di film sulla boxe senza necessariamente ricorrere alla violenza né all’ideologia del successo ad ogni costo; il desiderio di vittoria della protagonista risponde ad un anelito di natura esistenziale, di rivincita su un mondo esterno che tende ad emarginarla. E poi Vanessa Redgrave impegnata in un regolare incontro di pugilato a pugni nudi con un maschietto in “La ballata del caffè triste” (1990, Simon Callow). Va anche segnalato “Against the Ropes”, con Meg Ryan nei panni di una donna-manager in un ambiente di uomini. Ma il top, in questa direzione, è stato raggiunto dal film di Clint Eastwood, premiato con numerosi Oscar, “Million Dollar Baby”, interpretato da Hillary Swank, drammatico film sull’eutanasia. In Italia non si è quasi mai andati oltre il macchiettismo di certe soluzioni. Poche le eccezioni; Luchino Visconti aveva provato con “Rocco e i suoi fratelli” (1960) a rappresentare il pugilato come metafora dei sogni di riscatto delle generazioni di giovani meridionali immigrati a Milano; per il resto è trascurabile il contributo alla causa offerto da Bud Spencer in “Bomber” (1982) di Michele Lupo, e sono da dimenticare i tentativi di sfondare nel cinema di Nino Benvenuti (al fianco di Giuliano Gemma) e Primo Carnera, più macchietta che eroe. Tornando a Rocky, a “Rocky IV” nello specifico, il film appartiene senza possibilità di equivocare al periodo reaganiano; incarna come pochi altri il messaggero della ‘pax americana’ in terra russa, fa del ‘patriota’ Rocky il necessario contraltare ad una Guerra Fredda ancora viva, vero e proprio mito della propaganda occidentale. La regia di Stallone punta a enfatizzare spettacolarmente questo scontro. Con 300 milioni di dollari incassati in tutto il mondo “Rocky IV” è ancora oggi il titolo di maggior successo in assoluto della saga, perfino contando i risultati dei più recenti “Creed” e “Creed II”, al quale è particolarmente legato tramite i personaggi della famiglia Drago. Un vero e proprio trionfo di regia e montaggio, negli anni “Rocky IV” è diventato più di ogni altro il simbolo della vita cinematografica dell’eroe Rocky Balboa. La storia è arcinota e i suoi sottotesti politici (cui accennavo precedentemente) pure. Rocky, all’apice del successo e soprattutto della consapevolezza di sé, dopo aver riconquistato entrambe le cose si ritrova impotente e messo all’angolo come mai gli era capitato prima, quando assiste alla morte del suo migliore amico Apollo Creed per mano di Ivan Drago, pugile sovietico dalla stazza imponente che quasi ricorda il personaggio dello Squalo, il villain di “007 Moonraker” e “007 La spia che mi amava”. Il giovane pugile biondo arrivato dalla Russia con tanta voglia di menare le mani non fa che parlare di Rocky, e il pubblico, perfino su quel ring nel quale Creed perderà la vita, esulta alla sola vista di Rocky, presente in qualità di allenatore. Creed si fa più spaccone che mai e quella sarà la sua rovina, arriva ballando sulle note di “Living in America” di James Brown e se ne va tra le braccia di Rocky ricordando velatamente La pietà di Michelangelo. A quel punto Rocky dovrà volare a casa di Drago, nella gelida Madre Russia, per vendicare il suo amico… La celebre battuta di Ivan Drago (interpretato da Dolph Lundgren), “ti spiezzo in due”, in inglese recitava invece “I must break you”, cioè “devo spiezzarti”. Senza nulla togliere alla magistrale (e ad effetto) traduzione italiana, l’originale contiene una sfumatura importante: Drago non ha alcuna volontà, non combatte perché gli piace o perché ne ha bisogno o perché ha un torto da vendicare o qualcosa da dimostrare, lui combatte perché lo Stato gli ha detto di combattere e l’ha addestrato per quello. “Rocky IV” non è stato un film sociale ma politico, in un modo che oggi ci sembra quasi caricaturale ma che rifletteva all’epoca perfettamente il clima anti-URSS che si respirava.Nell’agosto 2020 Sylvester Stallone ha annunciato la realizzazione di una Director’s Cut del film per celebrarne il 35º anniversario; il nuovo montaggio contiene quaranta minuti di materiale inedito che vanno a sostituire alcune scene sullo scontro tra Rocky e Drago della versione cinematografica originale, lasciando praticamente immutata la durata complessiva: 91 minuti contro 93. Ci sono 38 minuti inediti in più a fronte di una durata totale praticamente uguale all’originale; il che significa che ci sono anche circa 38 minuti in meno dell’originale. La maggior parte di queste aggiunte e rimozioni sono dettagli e solamente qualche scena importante. La versione Director’s Cut, intitolataRocky IV: Rocky vs Drago” è stata proiettata nelle sale cinematografiche americane per un solo giorno (l’11 novembre 2021). Dalla visione di questa nuova versione ci si convince che si tratti di una sintesi del film originale; le scene sono meno ma più lunghe. Le peculiarità rimangono tutte: Drago vuole sempre “spiezzare” in due Rocky, Apollo muore, James Brown canta “Living in America” e alla fine Rocky pronuncia comunque il discorso che chiude la Guerra Fredda (anche se è un po’ diverso e Gorbaciov non applaude ma se ne va stizzito). Nella Director’s Cut “Rocky IV” rimane sempre “Rocky IV”, ma il rimontaggio del film a cui Stallone si è dedicato durante il lockdown, attingendo al tantissimo girato dell’epoca che non era stato usato, altera sufficientemente il procedere del film. Stallone ha dato un maggiore respiro ad alcuni momenti cruciali ed eliminato altri marginali, e ha dato più spazio a personaggi centrali. Ad esempio l’incontro finale è più lungo, a partire dalle presentazioni dei pugili (molto più importante quella di Drago) mentre sono state ridotte le inquadrature incentrate su Adriana seduta in tribuna e addirittura scompare il figlio che guarda l’incontro a casa; anche durante il festeggiamento finale non lo si vede mai. Un breve frammento enfatizza il senso di colpa di Rocky: nell’originale Rocky prende la spugna, come per gettarla ma poi si ferma, non lo fa perché è così che gli aveva chiesto Apollo, subito dopo lo vede prendere l’ultimo pugno. In questo frangente la dinamica è invertita, Rocky esita un momento di più a prendere la spugna, poi quando si decide la afferra, per lanciarla, ma non fa in tempo perché Apollo prende il colpo di grazia. Poi, aggiungiamo, è stata inserita una scena mai vista prima al funerale di Apollo (il discorso del suo allenatore), in maniera che appare evidente l’intenzione di Stallone: era Rocky che doveva combattere con Drago e rinunciarvi, dando modo ad Apollo di subentrare, lo fa sentire in colpa per la morte dell’amico. Il nuovo “Rocky IV”, per certi versi, è più un film d’autore. Inoltre, aggiungiamo, che “Rocky IV” contiene (probabilmente) la sequenza di combattimento più complicata e sofisticata mai realizzata, che ha richiesto sei mesi di allenamento e di preparazione alle coreografie. Ecco “Rocky vs Drago” ‘illumina’ molto di più questo aspetto del film senza dimenticare che si tratta di uno dei pochi film di sport che applica effetti sonori genuini e colpi reali. “Io so fare solo questo” è la frase che diceva (e non dice più) Rocky ad Adriana quando lei non capisce perché mai dovrebbe accettare questa sfida assurda. Il rimaneggiamento operato da Stallone ci offre un film mainstream dalle sfumatura molto più autoriale.

TECNICA
Disponibili, per la prima volta in versione Steelbook 4K Ultra HD™ + Blu-Ray™, i quattro film della gloriosa saga di Rocky Balboa con protagonista Sylvester Stallone nel ruolo dell’iconico pugile. L’esclusiva versione di “Rocky IV” conterrà inoltre al suo interno “Rocky vs. Drago: The Ultimate Director’s Cut”, il quarto film della saga in una edizione speciale con scene inedite. Non c’è che dire; il 4K consente di vedere i primi quattro film della saga con una qualità che mai era stato possibile prima. “Rocky IV” offre miglioramenti nettamente percepibili rispetto alle precedenti edizioni Home Video, e al netto di qualche trascurabile sbavatura e di una inevitabile pastosità nelle scene più scure, l’aspetto più evidente è che le immagini, in linea con gli anni Ottanta, sono più esuberanti sul piano cromatico, addirittura più sgargianti, ed esaltano il look ricercato della messa in scena. C’è maggiore nitidezza generale del quadro video, il dettaglio è in alcune sequenze più affilato e impressionante, i neri sono solidi, e più ricca e puntuale risulta essere la profondità. Quella grana video che si rileva, di natura cinematografica, non inficia affatto la bontà della visione domestica. Nella “Ultimate Director’s Cut”, intitolata “Rocky IV: Rocky Vs. Drago”, troviamo – come detto – un montaggio molto diverso con filmati alternativi o eliminati. Cambia soprattutto il formato video che è portato a 2.35:1 e fa leva su una palette cromatica leggermente più fredda rispetto alla versione cinematografica, con una grana meno pronunciata, che rendono alcuni flashback desaturati se non addirittura in B&N. Per il resto il dettaglio è ottimale, anche se su alcuni dei filmati aggiunti si colgono alcuni ritocchi che hanno reso l’insieme più omogeneo. Decisamente meno appagante risulta essere invece il reparto audio. La traccia italiana è fornita in un Dolby Digital 5.1 pulito e coinvolgente, ma (‘of course!’) piuttosto datato, poco incisivo e privo di dinamica, con dialoghi un pò chiusi e ovattati. Comunque si distinguono i brani della epica colonna sonora e gli effetti della folla, avvolgenti, soprattutto durante le fasi più concitate dei combattimenti. Pure sulle tracce in inglese non si son fatti miracoli: di certo migliori di quella nella nostra lingua ma per nulla esaltanti, ed entrambe le opzioni, sia quella DTS HD 2.0 sia il remixato DTS HD 5.1, ‘suonano’ molto artificiali.

(Luigi Lozzi)                                                © RIPRODUZIONE RISERVATA

 

NOTE TECNICHE
Il Film

ROCKY IV
(Rocky IV)
Usa, 1985, 91’
Regia: Sylvester Stallone
Cast: Sylvester Stallone, Talia Shire, Burt Young, Dolph Lundgren, Carl Weathers, Tony Burton, Michael Pataki, Brigitte Nielsen, R.J. Adams, Al Bandiero, Dominic Barto, James Brown, Mark De Alessandro, Danial Brown, Rose Mary Campos, Jack Carpenter, Marty Denkin, Lou Fillipo, James “Cannonball” Green, Dean Hammond, Rocky Krakoff, Sergei Levin, Anthony Maffatone, Sylvia Meals, Dwayne Mcgee, Stu Nahan, Leroy Neiman, George Pipaski, George Rogan, Barry Tompkin, Warner Woolf, Robert Doornick.

Informazioni tecniche del 4K ULTRA-HD / Blu-Ray

Aspect ratio: 1,85:1 Anamorfico 2160p / Anamorfico 1080p
Audio 4K Ultra-HD: Inglese DTS-HD Master Audio 5.1 / Italiano, Tedesco, Francese, Spagnolo Dolby Digital 5.1
Audio Blu-Ray: Italiano, Inglese DTS-HD Master Audio 5.1 / Italiano DTS 5.1
Distributore: Warner Bros. Entertainment Italia

 

 

 

 

Ecco tutti i film, compresi i tre spin off, della serie:
1976 – ROCKY, regia di John G. Avildsen con Sylvester Stallone (Rocky), Talia Shire (Adriana Pennino), Burt Young (Paulie Pennino), Carl Weathers (Apollo Creed), Burgess Meredith (Mickey Goldmill, allenatore di Rocky), Tony Burton (Tony “Duke” Evers, allenatore di Apollo), Joe Spinell (Tony Gasco, gangster italo-americano);

1979 – ROCKY II, regia di Sylvester Stallone con Sylvester Stallone (Rocky), Talia Shire (Adriana Pennino), Burt Young (Paulie Pennino), Carl Weathers (Apollo Creed), Burgess Meredith (Mickey Goldmill, allenatore di Rocky), Tony Burton (Tony “Duke” Evers, allenatore di Apollo), Joe Spinell (Tony Gasco, gangster italo-americano), Paul Micale (Padre Carmine), Frank McRae (Caposquadra della macelleria);

1982 – ROCKY III, regia di Sylvester Stallone con Sylvester Stallone (Rocky), Talia Shire (Adriana Pennino), Burt Young (Paulie Pennino), Carl Weathers (Apollo Creed), Burgess Meredith (Mickey Goldmill, allenatore di Rocky), Tony Burton (Tony “Duke” Evers, allenatore di Apollo), Mr. T (Clubber Lang), Hulk Hogan (Labbra Tonanti);

1985 – ROCKY IV, regia di Sylvester Stallone con Sylvester Stallone (Rocky), Talia Shire (Adriana Pennino), Burt Young (Paulie Pennino), Carl Weathers (Apollo Creed), Tony Burton (Tony “Duke” Evers, ora allenatore di Rocky), Dolph Lundgren (Ivan Drago), Brigitte Nielsen (Ludmilla Vobet);

1990 – ROCKY V, regia di John G. Avildsen con Sylvester Stallone (Rocky), Talia Shire (Adriana Pennino), Burt Young (Paulie Pennino), Tony Burton (Tony “Duke” Evers), Sage Stallone (Robert Balboa Jr.), Tommy Morrison (Tommy “Machine” Gunn), Richard Gant (George Washington Duke);

2006 – ROCKY BALBOA, regia di Sylvester Stallone con Sylvester Stallone (Rocky), Antonio Tarver (Mason “The Line” Dixon), Geraldine Hughes (Marie), Burt Young (Paulie Pennino), Tony Burton (Tony “Duke” Evers), Milo Ventimiglia (Robert Balboa Jr.);

2015 – CREED – NATO PER COMBATTERE, regia di Ryan Coogler con Sylvester Stallone (Rocky), Michael B. Jordan (Adonis “Donnie” Johnson), Tessa Thompson (Bianca), Phylicia Rashād (Mary Anne Creed), Tony Bellew (Ricky Conlan, lo sfidante di Adonis), Graham McTavish (Tommy Holiday);

2018 – CREED II, regia di Steven Caple Jr., con Sylvester Stallone (Rocky), Michael B. Jordan (Adonis “Donnie” Johnson), Tessa Thompson (Bianca), Dolph Lundgren (Ivan Drago), Florian Munteanu (Viktor Drago), Phylicia Rashād (Mary Anne Creed);

2023 – CREED III, regia di Michael B. Jordan, con Michael B. Jordan (Adonis “Donnie” Creed), Tessa Thompson (Bianca Taylor), Jonathan Majors (Damian “Dame” Anderson), Phylicia Rashād (Mary Anne Creed), Wood Harris (Tony “Little Duke” Evers);