Cinema

IL FIGLIO DI SAUL di László Nemes

 

 

 

LUMINOSO ED UNIVERSALE DOPO IL BUIO
Lo spettatore viene trascinato in un incubo ad occhi aperti, dal quale è difficile tenersi distanti, un brivido corre lungo la schiena, suscita disagio per un realismo insopportabile e fa venire la voglia di abbandonare la propria poltrona, storditi, ma ha il suo momento liberatorio solo nelle immagini di chiusura del film. Il finale è anche quello che dona all’opera dell’ungherese László Nemes le stimmate d’immortalità e universalità. La sconfitta sotto il punto di vista umano è di tutti, la forza di fortificare il futuro sulle ceneri delle tragedie passate è una speranza che deve dare un senso alle nostre esistenze. Non posso aggiungere troppi particolari per non svelare il finale ‘luminoso’ del film; che è monito, speranza, lascito alle generazioni future. Il tempo poi ci confermerà che questo è un capolavoro.

È una materia difficile da affrontare quella la Shoah, figlia dell’aberrante follia nazista, oppure è fin troppo abusata per cui, ferma restando la necessità di continuare a tenere viva la memoria dell’Olocausto, il problema di base potrebbe essere rappresentato dall’incapacità di dire veramente qualcosa di nuovo sulla materia. Ecco allora che “Il figlio di Saul”, presentato lo scorso anno in concorso al Festival di Cannes (dove si aggiudicava il Gran Premio della Giuria), premiato pochi giorni fa con il Golden Globe come Miglior Film Straniero e favoritissimo alla prossima corsa all’Oscar, raccoglie il testimone e soddisfa in pieno l’esigenza di originalità. Nel film si racconta di un ‘sonderkommando’, Saul Ausländer, un ebreo ungherese prigioniero nel campo di concentramento (e di sterminio) di Auschwitz-Birkenau. I ‘sonderkommando’ allora, nell’ottobre del 1944, erano individui di robusta costituzione reclutati tra i prigionieri (e obbligati a collaborare con i nazisti e le SS) per ‘accompagnare’ le vittime predestinate (nel loro ultimo viaggio) alla camera a gas, sostenendo false promesse di una doccia e di un pasto caldo, e poi ripulire le stanze degli eccidi, che si consumavano in modo sommario e a un ritmo vorticoso da catena di montaggio, e ancora spalare le ceneri delle terribili cremazioni e disperderle nelle acque di un fiume. Il protagonista, sul quale la cinepresa fissa la sua attenzione totale (e per tutta la durata della pellicola viene ripreso in primo piano, di volto o di nuca) dopo un iniziale aggiustamento del ‘fuoco’ (che più tardi si comprenderà meglio), seguendolo in un lungo piano sequenza attraverso i suoi spostamenti all’interno del campo (tra corpi nudi a terra, gli abiti accatastati cui vengono sottratti tutti i valori in essi contenuti, i forni crematori, i cumuli di ceneri, i nuovi arrivi di prossime vittime, le fosse comuni), è costretto, obbligato suo malgrado eppure complice involontario, ad essere testimone dell’Orrore, assistere ad uno sterminio il cui ricordo ancora oggi viene riverberato nelle coscienze (soprattutto) dei giovani perché abbiano forte la consapevolezza che questa tragedia dell’umanità mai più si ripeta. Anche il destino dei ‘sonderkommando’, solo apparentemente un gruppo di uomini privilegiati (sulle loro giacche è verniciata una ‘X’ rossa che li rende immediatamente riconoscibili), è segnato perché dopo un periodo di intenso ‘lavoro’ questi vengono sostituiti da una nuova e più ‘fresca’ formazione e destinati quindi a loro volta a morire. La consapevolezza del proprio destino e l’orrore vissuto a distanza così ravvicinata convincono il gruppo ad organizzare una rivolta prima d’essere sostituiti. Saul riconosce tra i cadaveri accatastati quello di suo figlio, da quel momento, in una corsa senza respiro, la sua missione (e la sua ossessione) è quella di sottrarre il corpo ai forni crematori, salvaguardarne l’integrità e dare al ragazzo una degna e sacra sepoltura dopo un rituale religioso (il Kaddish) che solo un rabbino può esercitare. In questa fase il film assume toni – direi – (quasi) surreali: in quello che sembra un girone dell’inferno, una Babele del terrore, il bisogno disperato si Saul, l’ostinazione nel ricercare di un rabbino tra i prigionieri del campo, nel nascondere il cadavere, e nel portarselo in spalla nel momento in cui la rivolta prende il là in un clima di straziante isteria, lo spettatore non comprende bene il perché di questa pervicacia quando invece il più elementare istinto di sopravvivenza dovrebbe prendere il sopravvento. Tutto apparirà più chiaro nei minuti finali del film quando emergerà evidente la sua forza, la sua grandezza, la sua universalità. Saul, con disperata e silente caparbietà, cerca di portare a termine il suo piano, muovendosi a zig-zag tra gli orrori del campo che noi percepiamo distintivi sullo sfondo. Il regista ungherese (già assistente di Bela Tarr) al suo esordio, ben consapevole dell’impossibilità di dire qualcosa di definitivo sull’argomento dal punto di vista etico, lancia una sfida estetica cui è difficile restare inerti o indifferenti. Anche nella scelta dei formato 4:3 dello schermo c’è una ben precisa volontà registica di concentrarsi esclusivamente sul personaggio, sul suo punto di vista, lasciando sovente lo sfondo sfocati, rendendo (claustrofobicamente) confuso e indistinto quel che avviene attorno a lui, per limitare lo sguardo dello spettatore e non concedere nulla allo spettacolo inteso nella sua forma tradizionale; ben lontano, come si rivela, dalla retorica del dolore della maggior parte del cinema che ha provato a raccontare i campi di concentramento e lo sterminio degli ebrei. László Nemes ha una magnifica ed originalissima idea di cinema e la applica al racconto con estrema coerenza filmica; è regista da tenere d’occhio e fin da ora lo attendiamo ad una nuova prova (quasi) sicuri che non ci deluderà.

 

(Luigi Lozzi)                                                © RIPRODUZIONE RISERVATA

 


(immagini per cortese concessione di Teodora Film)

 

Il figlio di Saul
(Saul Fia, Ungheria, 2015)
Regia: László Nemes
Cast: Géza Röhrig, Levente Molnár, Urs Rechn, Sándor Zsotér, Todd Charmont, Uwe Lauer, Marcin Czarnik, Jerzy Walczak, Christian Harting.
Sceneggiatura: László Nemes, Clara Royer
Fotografia: Mátyás Erdély
Scenografia: László Rajk
Montaggio: Matthieu Toponier
Musica: László Melis
Suono: Tamás Zányi
Genere: Drammatico
Durata e formato: 107’ min. / 1.37:1, 35mm
Produzione: Laokoon Filmgroup con il support di Hungarian National Film Fund, Claims Conference
Produttori: Gábor Sipos, Gábor Rajna
Distribuzione Italiana: Teodora Film
Data di uscita: 21 gennaio 2016