YASUJIRO OZU: IL CINEMA DELLA NOSTALGIA E DELLA CONSAPEVOLEZZA
Poco conosciuto alle nostre latitudini (una certa visibilità l’hanno avuta solo “Viaggio a Tokyo” e “Il gusto del saké”), se non ad una ristretta cerchia di appassionati del cinema nipponico dei Cinquanta e Sessanta, a quegli affezionati frequentatori a notte fonda degli schermi televisivi, pronti a recuperare opere altrimenti difficili da trovar programmate nei palinsesti di più ampio consumo, Ozu Yasujirō (ma si può indicare pure come Yasujirō Ozu, come da prassi acquisita nei confronti di autori provenienti dall’oriente in cui un nome precede o segue l’altro) in patria ha sempre goduto di grande considerazione (almeno pari a quella di autori più celebrati in occidente come Kenji Mizoguchi o Akira Kurosawa) soprattutto per aver mantenuto nelle sue opere un costante e riconoscibile tratto artistico che gli ha fatto conquistare l’appellativo di ‘il più giapponese dei registi giapponesi’.
Si tratta in prevalentemente di film dall’impronta sociale incentrati sulla piccola borghesia, sulla famiglia (con particolare attenzione al rapporto tra genitori e figli) e sull’infanzia; storie piccole di tutti i giorni, quasi neorealiste, spesso drammi della gente comune (i cosiddetti ‘shomingeki’). Quello del ritono nostalgico all’infanzia è un tema caro a moltissimi autori, anche contemporanei del Cinema del Sol Levante; si pensi per esempio anche ai film d’animazione di Hayao Miyazaki. I sentimenti tra genitori e figli, le loro relazioni e le mille sfaccettature, grazie al lavoro di Ozu (venerato dai cinefili), hanno assunto uno status di universalità riconoscibile un po’ dovunque; i suoi film riescono a parlare a tutti. Poco allineato nel dopoguerra ai dettami del governo nazionale, che voleva ‘suggerire’ i temi da trattare sul grande schermo, Ozu, pur rispettando le indicazione venute dall’alto, non rinunciò al suo universo poetico ed operò criticamente nei confronti delle linee politiche che non condivideva, con quella sobrietà e quella gentilezza che la critica cinematografica gli ha sempre riconosciuto. Con quello stile unico – semplicità del linguaggio e senza sentire il bisogno di ricorrere a effetti tecnici o a trucchi, e al movimento di macchina – che non tradiva gli standard del cinema giapponese, dai ritmi narrativi abitualmente lenti e pacati, indagatori dell’animo umano e tipicamente letterari, nell’incontro tra modernità e tradizione, cui Ozu aggiungeva la scelta di posizionare la macchina da presa sempre nella stessa angolazione, con l’uso insistito d’una visuale dal basso. Insomma poesia, realismo e avanguardia nello stesso tempo. Il regista stesso dichiarava: «I miei film possono sembrare tutti eguali, ma io cerco di creare qualcosa di nuovo ogni volta: come fa il pittore che dipinge la stessa rosa, sempre la stessa, e ogni volta arricchisce la propria visione». Per Ozu poi il montaggio è stata sempre una questione di semplicità e naturalezza; anche le dissolvenze vennero sempre evitate e perfino il parlato (e i dialoghi, peraltro magnifici) si fece largo molto tardi nei suoi film rispetto ai suoi colleghi. Yasujirō Ozu era nato a Tokyo il 12 Dicembre 1903 ed il 12 Dicembre di sessant’anni dopo è morto, sempre nella capitale del Giappone. In quarant’anni di cinema Ozu (partendo dall’epoca del muto) ha diretto cinquantacinque film, girando quasi sempre intorno agli stessi temi a lui cari: la vita quotidiana e le problematiche d’ambientazione familiare nella piccola e media borghesia. In questi termini si è espresso Wim Wenders in favore di Yasujirō Ozu: «Se nel nostro secolo esistesse ancora qualcosa di sacro, se ci fosse qualcosa come un tesoro segreto del cinema, per me quel qualcosa dovrebbe essere l’opera del regista giapponese Yasujirō Ozu». E Abbas Kiarostami ha aggiunto: «Il cinema di Ozu è un cinema gentile. Forse la ragione del perenne fascino esercitato da Ozu è che lui rispettava i diritti del pubblico come di un pubblico dotato di intelligenza». Dopo il successo di “Rashomon” di Akira Kurosawa registrato al Festival di Venezia del 1951, si è proceduti alla scoperta di una delle cinematografie più ricche e affascinanti del nostro Pianeta, si sono svelati allo sguardo degli appassionati occidentali oltre a Kurosawa i nomi di Kenji Mizoguchi, Masaki Kobayashi, Kon Ichikawa, Mikio Naruse, Keisuke Kinoshita, Teinosuke Kinugasa mentre l’opera di Ozu è rimasta a lungo sconosciuta, inaccessibile ai più, salvo gli ultimissimi film che – come detto – hanno avuto una piccola distribuzione in Europa (non in Italia). Agli inizi – quando aveva vent’anni – Ozu era stato aiuto regista di Tadamoto Okubo, tra i primi autori del Cinema ‘nonsense’, presso gli studi di Kamata della Shōchiku. Poi nel 1927 la svolta, dopo essere stato promosso a regista girava il suo primo film “Zange no yaiba” (“La spada della penitenza”), primo e unico film storico e in costume. Ozu in quel periodo girò ben 19 film fra il 1927 e il 1930, influenzato dai modelli del cinema americano di cui si era abbondantemente nutrito negli anni in cui era studente. Negli anni Trenta, dopo il veloce e utilissimo tirocinio, Ozu veniva inserito dagli Studi tra i registi più affidabili per la realizzazione di opere dall’impegno finanziario più consistente. La critica nipponica prese presto a benvolerlo; i suoi lavori venivano regolarmente inseriti nel novero dei migliori della cinematografia nazionale anno dopo anno. Nel settembre 1937 Ozu veniva spedito a combattere in Cina con l’esercito giapponese e al suo rientro, nell’agosto 1939, riprendeva a lavorare per lo studio Shōchiku. Nacquero altri gioielli tra i quali “Fratelli e sorelle della famiglia Toda” (“Toda ke no kyōdai”, 1941), la storia di una famiglia in cui un figlio decide portare con se, in Manciuria, la madre e la sorella più giovane. Poi, via via la sua carriera decollò ulteriormente in Giappone dalla fine degli anni Quaranta.
Ora grazie al prezioso lavoro di recupero operato dalla Tucker Film e alla cura nella realizzazione messa in campo dalla CG Entertainment, tornano alla luce sei capolavori restaurati del ‘Maestro’ giapponese in due cofanetti da tre DVD l’uno; appartengono al periodo d’oro della carriera del maestro e vanno dalla fine degli anni Quaranta all’inizio degli anni Sessanta. La Tucker Film da anni, parallelamente alle annuali edizioni del Far East Film Festival di Udine, porta avanti un’operazione di divulgazione delle opere e dei grandi protagonisti del cinema orientale. Bisogna sottolineare come molti dei film di Ozu sono andati purtroppo distrutti nel corso della Seconda Guerra Mondiale ed altri, mal conservati, in alcuni casi si sono rivelati irrecuperabili. Così i due cofanetti approntati dalla Tucker diventano davvero una testimonianza preziosa (quasi unica) dell’opera del regista. I sei film di Yasujirō Ozu sono stati restaurati digitalmente (in formato 2K) dalla major nipponica Shochiku, acquistati per il nostro mercato dalla Tucker Film, prima presentati nelle sale (all’inizio del 2015), per permettere al pubblico italiano di (ri)scoprire questi capolavori, e poi distribuiti per l’Home Video da CG Entertainment. “Viaggio a Tokyo” (“Tokyo Story”/“Tokyo monogatari“) del 1953 è il più famoso dei film di Ozu e – addirittura – è stato eletto dalla rivista Sight & Sound come il più bel film della storia del cinema (votato da 358 registi di tutto il mondo) e Wim Wenders lo ha amato tantissimo al punto da aver disseminato di palesi citazioni del film il suo “Tokyo-ga” del 1985. Vi si racconta il viaggio tra amarezze e disillusioni di una anziana coppia che va a far visita ai diversi figli (sposati e con prole) che vivono nella grande città, la capitale; i due dovranno prendere atto della distanza che ormai li separa dai figli ed anche della definitiva frantumazione del loro nucleo familiare. Non può non essersi ricordato di questo film Giuseppe Tornatore quando ha realizzato il suo “Stanno tutti bene” nel 1990. “Good Morning” (“Ohayō”), del 1959, è uno dei primi film a colori di Ozu, ed è un piccolo gioiello di cromatismi; protagonisti sono due piccoli fratelli che fanno di tutto per convincere i genitori ad acquistare un televisore. “Tarda primavera” (“Late Spring”/”Banshun”, 1949) è opera fondamentale nella cinematografia di Ozu ed il primo della raggiunta maturità artistica; racconta la storia di una giovane donna che non vuole sposarsi per non lasciare da solo l’anziano padre, un professore in pensione che preferirebbe fortemente che la figlia seguisse il proprio destino e per raggiungere l’obbiettivo finge di avere un’amante. Una storia di genuina umanità. “Tardo autunno” (“Late Autumn”/”Akibiyori”, 1960) è venato di ironia e di nostalgia; vi si narra di tre vecchi amici che in altri tempi avevano corteggiato la stessa donna che oggi è vedova e sta preparando le nozze di sua figlia. “Fiori d’equinozio” (“Equinox Flower”/”Higanbana”, 1958) tratta con marcata ironia di un padre che non riesce ad opporsi al matrimonio della figlia; tema sociale che è cartina tornasole del cambiamento dei tempi e della perdita dell’autorità paterna. Una volta di più si mette in evidenza il tema dei contrasti generazionali molto sentito dai registi della vecchia generazione (allora) ancora attivi. “Il gusto del saké” (“An Autumn Afternoon”/”Sanma no aji”, 1962) oltre ad essere l’ultimo film di Ozu (sarebbe morto a Tokyo il 12 dicembre 1963 a sessant’anni), è un magnifico film sul tempo che scorre inesorabilmente lasciando ampio spazio alla nostalgia per un passato che non si riaffaccerà più nelle nostre vite. Il matrimonio è una volta di più al centro del racconto assieme ai ricordi giovanili studenteschi. Si respira un sentimento palpabile di malinconia e fa si che i protagonisti dei suoi film (e con essi gli spettatori) giungano alla consapevolezza del carattere effimero e transitorio di ogni cosa, a una sorta di dolente e matura accettazione dell’ineluttabilità del cambiamento. Altri film che meriterebbero d’essere recuperati sono: “Sono nato, ma…” (“Umarete wa mita keredo“, 1932), nel quale due bambini che scoprono con amarezza la perdita di dignità del padre di fronte al proprio datore di lavoro, “Il figlio unico” (“Hitori musuko“ 1936, primo film parlato di Ozu), storia di una madre delusa dall’atteggiamento rinunciatario del figlio nei confronti della vita, “C’era un padre” (“Chichi ariki”, 1942), incentrato sul rapporto fra un padre vedovo e il suo unico figlio trasferitosi per motivi professionali, “La testimonianza di un signor inquilino” (1947), “Una gallina nel vento” (1948), “Il sapore del riso al tè verde” (1952), intorno a due coniugi di mezza età senza figli che trovano il modo di dare un senso compiuto alla loro unione. Il Cinema (con la ‘C’ maiuscola) di Ozu dona sublime interiorità allo spettatore, dà un senso alto alla visione dei film, rinfranca l’animo anche nell’ambito del messaggio di rassegnata consapevolezza che da essi proviene. Grande attualità: la società cambia e i modelli d’un tempo crollano inesorabilmente, malinconicamente.
(Luigi Lozzi) © RIPRODUZIONE RISERVATA
(immagini per cortese concessione di Tucker Film/CG Entertainment)
AUTUNNO E PRIMAVERA – VOLUME 1 & 2
Volume 1:
Tarda primavera (Late Spring), 1959, 104‘
Viaggio a Tokyo (Tokyo monogatari/Tokyo Story), 1953, 131‘
Fiori d’equinozio (Equinox Flower), 1958, 113‘
Volume 2:
Buon giorno (Good Morning), 1959, 90‘
Tardo autunno (Late Autumn), 1960, 124‘
Il gusto del sake (An Autumn Afternoon), 1962, 109‘
Giappone, 1953-1962
Video: 1.33:1
Audio: Giapponese Dolby Digital 2.0 (Dual Mono) sottotitolato in Italiano
Distributore: Tucker Film/CG Entertainment