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AMARCORD di Federico Fellini in Blu-Ray

 

 

 

 

Probabilmente sono percepiti altri come i film capolavoro assoluti di Federico Fellini – ed intendo “8 e mezzo” e “La Dolce Vita” che lo hanno fatto conoscere e celebrare in tutto il mondo -, ma “Amarcord”, Oscar ’74 come Miglior Film Straniero, è quello certamente più popolare ed universale di tutti perché accessibile ad un maggior numero di spettatori e più facilmente comprensibile. Il titolo, in romagnolo, significa “Io mi ricordo” ed il film, ricco di elementi autobiografici, è il commosso omaggio di un artista ai luoghi delle proprie origini.

Affronta, in forma nostalgica, con modi semplici e sublimi nei quali ognuno può identificarsi con facilità, il racconto di un’adolescenza romagnola degli anni ’30 nell’allora piccolo borgo sulle rive dell’Adriatico, Rimini, per il tramite della poetica di chi – Fellini – ha trovato la propria ispirazione nella ‘ricerca’ di un suo tempo perduto e nei sogni ad occhi aperti che lo hanno accompagnato per tutta la sua esistenza. Una sorte di ‘sogno ad occhi aperti sulla settima arte’ ma “Amarcord” è pure uno spaccato ironico e struggente (grazie anche alla indimenticabile colonna sonora di Nino Rota, alla fotografia di Giuseppe Rotunno e alle scenografie di Danilo Donati) sul provincialismo genuino della società italiana del ventennio fascista; ed è così che il narrato snocciola, uno dietro l’altro, episodi che riguardano la quotidianità e i valori dell’epoca: dalla scuola allo zio indolente che si fa mantenere in casa della sorella, e quell’altro zio matto che dalla cima di un albero grida ‘voglio una donna’ e viene placato solamente dall’intervento di una suora nana, dalle parate fasciste al papà antifascista che per i suoi moti d’insofferenza al regime deve sorbirsi una razione di olio di ricino, dalla prostituta sentimentale che ha un nome che è tutta una dichiarazione di intenti, Gradisca, alla ragazza selvaggia e facile che ‘va con tutti’, alla tabaccaia dal seno enorme, dall’Hotel dei sogni, l’Excelsior, al passaggio del transatlantico Rex, e a quello della Mille Miglia. Un capolavoro che incanta lo sguardo e riscalda il cuore se si è capaci – e la cosa non è poi così difficile – di porsi sulla stessa lunghezza d’onda del regista riminese e del suo viaggio nostalgico in un mondo che non esiste più ma dalla formidabile forza evocativa. Un universo poetico che riporta alla luce ricordi (“a m’ arcòrd” in emiliano) della giovinezza di Fellini ma trasfigurati dalla memoria. «Non è la memoria che domina i miei film. Dire che i miei film sono autobiografici è una disinvolta fregnaccia. Io la mia vita me la sono inventata. L’ho inventata apposta per lo schermo. Prima di girare il primo film non ho fatto altro che prepararmi a diventare alto e grosso abbastanza e a caricarmi di tutta l’energia necessaria per arrivare un giorno a dire ‘azione!’. Ho vissuto per scoprire e creare un regista: niente altro. E di niente altro ho memoria, pur passando per uno che vive la sua vita espressiva sui grandi magazzini della memoria. Non è vero niente. Nel senso dell’aneddoto, di autobiografico, nei miei film non c’è nulla. C’è invece la testimonianza di una certa stagione che ho vissuto. In tal senso, allora sì, che i miei film sono autobiografici: ma allo stesso modo in cui ogni libro, ogni verso di poeta, ogni colore messo su tela, è autobiografico»; questo raccontava Federico Fellini ===Consulta la Filmografia=== nel 1974. La poetica felliniana in “Amarcord”, il visionario universo, ha preso vita dalla realtà sociale ma, con la complicità di Tonino Guerra con cui Federico ha condiviso la sceneggiatura, è stata alimentata dalla fantasia e dalla memoria restituendoci una sorta di “realismo dell’anima”, in una fantasmagorica dimensione onirica. Fellini mostra una straordinaria e naturale talento nel creare caratteri – frutto anche degli esordi come vignettista -, soprattutto quelli secondari ma che hanno sempre ‘riempito’ il suo universo filmico, e in “Amarcord” più che in ogni altro caso. Un film corale che, come disse Tonino Guerra, «Ha regalato l’infanzia al mondo». E che impatto ha avuto sulla dinamica emotiva del film e sulla memoria dello spettatore la musica composta da Nino Rota, a donare la sensazione viva del dolce abbandonarsi alla deriva onirica dei ricordi e dell’invenzione fantastica; e l’effetto su quello struggente finale… ‘Titta’ Biondi, il giovane protagonista (Bruno Zanin), impersona il Fellini giovane che inizia a scoprire il mondo e ha preso il nome dall’amico di infanzia e compagno di scuola di Fellini, Luigi Benzi detto Titta. Fellini aveva 53 anni quando girò il film e ormai viveva già da oltre trent’anni a Roma dove si era trasferito nel 1939, tornando a Rimini solo pochissime volte; peraltro non riconoscendovi più il borgo natio, trasformato da un piano urbanistico che ne aveva accresciuto le dimensioni trasformandolo in meta del turismo di massa. “Amarcord” uscì nelle sale italiane il 13 dicembre 1973, venne presentato fuori concorso al Festival di Cannes 1974, e nel tempo ha avuto un successo di critica straordinario, e conseguentemente anche il pubblico ha iniziato ad amarlo profondamente, ma all’epoca della sua uscita in realtà non ottenne buoni risultati al botteghino mentre andò meglio negli Stati Uniti dove da subito venne accolto con favore anche dagli spettatori. Nel 1975 il film si aggiudicava l’Oscar come Miglior Film Straniero, il quarto e ultimo di Fellini prima di quello alla carriera ricevuto nel 1993. Inizialmente doveva intitolarsi “Il borgo” e successivamente “L’uomo invaso”. Siamo nella Rimini, denominata Borgo, della prima metà degli anni Trenta, un microcosmo di provincia con tutti i vizi e le virtù di un ambiente ristretto, popolato nella sua quotidianità da tanti personaggi singolari – maschere e macchiette – dei quali cominciamo subito a fare la conoscenza, a partire dall’avvocato dalla retorica facile che nel silenzio della notte racconta rivolto alla cinepresa e viene spernacchiato da un anonimo. E ci sono poi i professori della locale scuola media, Volpina la ninfomane, il motociclista esibizionista, il matto del villaggio che si chiama Giudizio, Biscein il fanfarone, il cieco che suona la fisarmonica. Tra gli adolescenti che frequentano la scuola – fra educazione cattolica, retorica fascista e scherzi ai danni di compagni di classe e insegnanti – facciamo la conoscenza di Titta e della sua famiglia: Aurelio è il padre iroso, un capomastro anarchico e antifascista, che con il suo lavoro mantiene una moglie isterica, con cui bisticcia di continuo, due figli, l’anziano e ancora arzillo padre ed un cognato senza né arte né parte, lo zio ‘Pataca’, amante della vita comoda. Invece ha un fratello, Teo, chiuso in manicomio. Titta, nel quale idealmente possiamo identificare lo stesso Federico Fellini, vive la sua crescita sentimentale tra il mito dell’inarrivabile Gradisca e i seni grandi, intimidatori e materni al tempo stesso, oggetto di fantasie erotiche, della tabaccaia, entrambe lì a stuzzicare la sua fantasia. La vita nel borgo scorre scandita dal trascorrere delle stagioni e degli eventi, dalle abbondanti nevicate ai falò rituali accesi per salutare la fine dell’inverno, dal passaggio della Mille Miglia a quello del transatlantico Rex alla visita del gerarca fascista. Per Titta la morte della madre e il matrimonio di Gradisca con un carabiniere di fatto segnano la fine dell’adolescenza, la conclusione di un periodo indimenticabile della vita che non tornerà mai più se non nei ricordi, nelle rimembranze nostalgiche e poetiche e nelle disillusioni. Alcune curiosità: Il ‘borgo’ di Rimini (il quartiere di San Giuliano) è stato ricostruito per intero a Cinecittà e alcune riprese nei pressi del mare sono state effettuate tra Ostia e Anzio. Infatti il Grand Hotel di Rimini che si vede esternamente nel film è in realtà l’Ex Casinò Paradiso del Mare di Anzio, la cui costruzione risale all’epoca fascista mentre la stazione ferroviaria di Rimini, dove viene accolto il gerarca fascista in visita alla città, è in realtà l’ingresso di Cinecittà ripreso dall’interno degli Studi. E la scena del passaggio del transatlantico Rex è stata girata nel bacino presente a Cinecittà. Una curiosità non confermata attribuisce a Fellini il desiderio di avere Edwige Fenech nella parte della Gradisca assegnato poi a Magali Noël. In un breve cameo troviamo, nel ruolo dell’addetto alla sicurezza del califfo, il compianto cantante del Banco del Mutuo Soccorso, Francesco Di Giacomo, che già aveva fatto capolino in “Roma”. Inoltre, con questo sono stati quattro i film che Alvaro Vitale, agli esordi nel cinema, ha girato con il maestro riminese dopo “Satyricon di Federico Fellini”, “I Clowns” e “Roma”. Tra i numerosi premi vinti ricordiamo i più importanti: (ovviamente) l’Oscar 1975 per il Miglior Film Straniero, 2 David di Donatello 1974 per il Miglior Film (a Federico Fellini e Franco Cristaldi) e la Miglior Regia, 4 Nastri d’Argento 1974 per Regia, Soggetto Originale, Sceneggiatura (a Fellini e Tonino Guerra) e Attore Esordiente (a Gianfilippo Carcano), il Globo d’oro 1975 per il Miglior Film, il Premio Bodil 1975 per il Miglior Film Europeo; inoltre la BBC nel 1996 lo ha classificato tra i 100 Migliori Film della Storia.
Quella che è arrivata per la prima volta in Blu-Ray, a 40 anni dall’Oscar per il Miglior Film Straniero, è la nuova versione restaurata del capolavoro di Federico Fellini; artefice del restauro è stato il laboratorio L’Immagine Ritrovata della Cineteca di Bologna, in collaborazione con il comune di Rimini, la Warner Bros., la Cristaldi Film (che lo ha prodotto) e con il sostegno di yoox.com. Ed è stato presentato in anteprima mondiale alla 72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia con l’integrazione di alcune scene e riprese inedite sul set per un totale di 8 minuti, che sono state personalmente selezionati e montati da Giuseppe Tornatore, tra l’abbondante materiale messo a disposizione dalla Cristaldi Film. Si è partiti dal negativo originale – che presentava qualche criticità per diversi fotogrammi – per realizzare una nuova scansione 4K; un procedimento seguito in prima persona da Giuseppe Rotunno, il direttore della fotografia di “Amarcord”. Il restauro è stato efficace al punto che la nuova versione permette di apprezzare colori e palette cromatica più in generale, la fotografia luminosa e i costumi nel dettaglio; più particolari che sfuggivano alle precedenti, conosciute, edizioni del film. Si è rimesso mano pure al celebre manifesto creato da Giuliano Geleng, pittore figlio d’arte di Rinaldo, amico storico di Fellini, con tutti i bozzetti dei personaggi in primo piano e sullo sfondo il Grand Hotel e il Rex che solca il mare, rielaborato con colori più accesi. Nel dettaglio il Blu-Ray propone una traccia audio in italiano rielaborata in un DTS-HD Master Audio 5.1 canali oltre ad un’altra più aderente all’originale dell’epoca in Dolby Digital 2.0; l’aspect-ratio è in formato 1.85:1 (a 1080p). I Contenuti Extra prevedono lo speciale “Come spiegare l’Italia agli extraterrestri”, che comprende interviste con Nicola Bassano, Paolo Virzì, Goffredo Fofi e Gianfranco Miro Gori.

 

(Luigi Lozzi)                                                © RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

Appendici:
poesia di Tonino Guerra in dialetto romagnolo:

A m’arcord        
Al so, al so, al so,                                  
Che un om a zinquent’ann                          
L’ha sempra al mèni puloidi                        
E me a li lèv do, tre volti e dè,                  
Ma l’è sultènt s’a m vaid al mèni sporchi       
Che me a m’arcord                                  
Ad quand ch’a s’era burdèll.                      

 

Io mi ricordo
Lo so, lo so, lo so,
Che un uomo a cinquant’anni
ha sempre le mani pulite
e io me le lavo due o tre volte al giorno,
Ma è soltanto se mi vedo le mani sporche
che io mi ricordo
di quando ero ragazzo.

 

Articolo di Pier Paolo Pasolini:
Federico Fellini e Tonino Guerra, Amarcord
(Tratto da Descrizioni di descrizioni e pubblicato il 30 settembre 1973)
Tonino Guerra ha messo per iscritto una storia inventata ed elaborata con Fellini su comuni ricordi d’infanzia e di giovinezza. Assumendosi la parte dell’estensore del testo, Guerra ha deciso subito onestamente di non venir meno alla tradizione dello «script», cioè di non fingere che il lettore di tale testo sia quello che si suppone essere il lettore di letteratura: e di accettare invece come lettore un uomo più semplice e quasi illetterato: quello che andrà a vedere il film. Da ciò nasce quel curioso soggetto narrante tipico degli «scripts», appunto, che non è un «io» né un «egli» tradizionali, ma un «noi» assolutamente ignoto alla tradizione letteraria. È, se mai ve ne fu, un plurale simpatetico (esattamente il contrario di quello che usa il Papa): un «noi» in cui l’autore (Tonino Guerra con Federico Fellini), in una specie di aprioristico e bonario embrassons-nous assume anche il lettore, o, meglio, un gran numero di lettori, e cosi, eccoci tutti insieme, che assistiamo allo svolgersi della storia, che par nascere dalla nostra attenzione e dal nostro interesse — se non addirittura dalla nostra memoria (quasicché avessimo tutti passato infanzia e giovinezza nel «Borgo» di Guerra e Fellini). Un personaggio lo «vediamo», o poco più avanti, lo «ritroviamo»; di un altro personaggio, alcune caratteristiche le «abbiamo già viste» ecc. ecc. Il titolo Amarcord andrebbe meglio allargato in «Asarcurdem» (non: «Mi ricordo», ma: «Ci ricordiamo»). A legare l’autore al lettore in quanto futuro spettatore, tuttavia, non è solo il pronome grammaticale: è la volontà stessa dell’autore che si autodestituisce dal proprio incarico di informatore onnisciente e chiama il lettore-spettatore alla gestione del racconto. Non si tratta però di un esperimento democratico di gestione collettiva dal basso: no. La letteratura è sempre aristocratica. Si tratta semplicemente di una violenza esercitata dall’autore sul lettore. Guerra e Fellini, cioè, disarmano il loro lettore imponendogli, come comune, una universale visione dell’esistenza e una unica possibile versione delle cose. Preso alla sprovvista il lettore (tutti i lettori sono ingenui) sta subito al gioco: si lascia disarmare come un bambino, e contraccambia le pacche sulle spalle e l’allegria un pò* nefanda da scampagnata vagamente blasfema con cui gli autori lo incantano e lo ricattano. Cosi plagiato, il lettore (con un certo disgusto che egli però non approfondisce, un po’ per non dispiacere ad anfitrioni cosi gentili e ospitali, un po’ per vedere – ingenuamente — come le cose andranno a parare) finge di esser convinto di aver passato le prime esperienze della vita in quel Borgo romagnolo di Guerra e Fellini, di aver conosciuto quella buona gente, e di esprimere su loro lo stesso giudizio: un giudizio sospeso, tra una bonarietà da sacrestia e un ghigno da casa dello studente.
Procedendo con la lettura, però, ci si accorge che tale giudizio – com’era lecito sospettare – non è qualunquistico: il suo restare sospeso e privo di livelli, come se ogni uomo valesse cinicamente ogni altro uomo e ogni condizione umana valesse cinicamente ogni altra condizione umana (perché no, del resto?), non è dovuto al qualunquismo ma a una disposizione verso la realtà che, della realtà, coglie prima di tutto il momento enigmatico che sospende e livella ogni cosa, appunto nella sostanziale impossibilità di ogni interpretazione. L’umanità e la storia sono fenomenologia pura.
Sotto questa luce enigmatica, succede così che i fatti del racconto del Borgo non siano aneddotici se non in primo grado, e i personaggi non siano delle macchiette che esteriormente. Ma cosa c’è dietro l’aneddoto e la macchietta paesana o provinciale? C’è, non la storia ma il nulla. L’enigmaticità davanti a cui si blocca il giudizio storico, morale, sociale, è una forma incondita e cristallizzata di religiosità che non trova altro sbocco che nel non detto « scacco del nulla». Ora, però, Fellini ha il terrore della serietà del nulla in quanto forma primaria e sia pur rozza di religione, cioè di tragicità. La sua educazione sentimentale (appunto in quel natio borgo cosi poco selvaggio, in quell’orrendo fondiglio piccolo-borghese) implica prima di tutto la paura dei sentimenti e ancor più della loro esprimi-bilità. Se il sentimento primo di Fellini è dunque l’enigmaticità di un mondo fondato sul nulla e vivente di apparizioni, egli deve, per ragioni sociali, prima di ogni cosa, nascondere questo sentimento, cioè mistificarlo. Ecco dunque che, non appena accenna a rivelarsi, a scoprirsi, esso viene immediatamente corretto: da che cosa? Dal riso. Dal riso, dico, non dall’umorismo. Fellini ambisce al comico (e Guerra è costretto, in questo, a tenergli bordone). Ma si tratta di un riso stridulo, che spesso ha stecche infernali. Un riso nervoso, quello che hanno le puttane quando si parla di cose sporche, o un masochista quando si parla di fruste: un riso cioè che distacca e distingue, che rimuove e ristabilisce le distanze. Un patetico e un po’agghiacciante riso di difesa. Cosi come la tragicità del nulla percorso da grevi teofanie deve essere corretta dal riso, il riso, a sua volta, deve correggere la propria sgradevolezza psicologica: questa seconda correzione viene ottenuta ricorrendo alla convenzione umoristica. Il cerchio si chiude: l’aneddoto e la macchietta (falsi) sono guardati con l’allegria (falsa) con cui la tradizione e il senso comune vuole li si guardino.
In conclusione Fellini si trova con ben poco in mano: la vita di un Borgo, da una primavera all’altra, coi suoi piccoli personaggi appartenenti all’infima borghesia o a un popolo provinciale più che agreste o preindustriale. Qualche grosso personaggio appare, ma come visto dagli umili. Se io fossi un produttore non farei fare a nessuno un film da questo racconto. Ne temerei, credo giustamente, un anacronistico revival neo-realistico, in cui ci si limitasse a promuovere il motto zavattiniano «I poveri sono matti» in «I piccoli-borghesi sono matti». Cosa non priva di suggestione, ma quatriduana.
Sapendo però che il regista del film sarà Fellini, la previsione dell’opera in cui quest’opera scritta vuole trasformarsi, è obbligata. Intanto, è certo che, malgrado il riso che corregge la tragicità che corregge la banalità dell’esistenza provinciale, e che a sua volta è corretto da una convenzione umoristica solidale con quella banalità, Fellini non avrà la minima esitazione ad essere estremista nel realizzare tutti quei suoi piccoli personaggi da poesia dialettale di farmacista di paese, in volgari, atroci, ripugnanti mostri, veri e propri monconi umani, privi del bene dell’intelletto. La totale mancanza di umanità – completamente atrofizzata – riporterà la materia imbellettata del racconto alla sua originaria tragicità.
Questo ritorno alla tragicità — è da supporre — come già nel libro si intravede – darà, sia pure molto indirettamente, la possibilità ai sentimenti denegati di riflettersi sulle cose. E l’Italia fascista del resto ha già nel libro quella meravigliosa, irripetibile bellezza contadina che si intravede nello stupendo Un po’ di febbre di Sandro Penna; oppure – addirittura – può risultare analoga alla Russia zarista col suo fondo di struggente purezza che sta — irrelato — dietro la folla dei personaggi atroci del Demone meschino di Sologub.
Resta da chiedersi — discorrendo e ipotizzando oltre il libro – come questa «realizzazione» redentrice — capace cioè di trasformare un piccolo mondo pascoliano post-datato all’epoca fascista — possa avvenire. È semplice. Fellini ha già la sua formula, che è la seguente: considerare la realtà nel suo insieme come inesprimibile e irrappresentabile ; sceglierne dunque una parte, un elemento, una forma, una riduzione; fare in modo che questo «campione» di realtà (che non può non conservarne la sostanza enigmatica) sia il più vicino possibile all’idea comune, pubblica, addirittura convenzionale; su questa fetta di realtà ridotta e convenzionale operare (è il momento essenziale) una dilatazione semantica e formale eccessiva senza riserve; presentare questo pezzettino o frangia di realtà, dilatata in una gigantografia che ne trasforma il senso, a uno spettatore che: a) resta sconvolto di fronte alla sua espressionistica enormità, b) ne riconosce il valore corrente e familiare.
In Roma, che è il suo capolavoro, Fellini ha fatto tutto questo, e gli è riuscito meglio che negli altri film perché ha avuto il coraggio di distruggere anche l’ultimo elemento non irrisorio, irrilevante o minimo della realtà, cioè il personaggio. Il pulviscolo di personaggi che gli rimane sono appunto delle piccole ombre della vita, dei paria esistenziali, dei palloncini che egli può dilatare come dirigibili, senza incontrare resistenza alcuna. Lo stupendo giovane della piazza della pizzeria di Roma, con la retina in testa (a m’arcord!) non risulterà certo superiore a Scurèza di Corpolò col berrettino da motociclista con la visiera all’indietro; né la sequenza del passaggio del «Rex» ha l’aria di aver qualcosa da invidiare a quella dell’autostrada in Roma (che ricordiamo come un evento di una realtà accaduta in sogno, piuttosto che come un pezzo di cinema). I critici non mi pare si siano accorti dell’eccezionale bellezza di Roma (va bene, con due o tre sequenze infelici). Tanto peggio per loro. Rivelano, al di fuori del film, la stessa brutale immaturità e la stessa debolezza spregevole (che pure non si può non perdonare) dei personaggi che si trovano dentro il film.
Nel momento in cui essi, dopo aver fatto i leccapiedi, per anni, di Fellini, hanno un gesto di impazienza, verso di lui che si ripete, come se tale impazienza fosse originale, personale, e non un atto di vile sottomissione all’evolversi della più infima opinione pubblica, si rendono campioni di quella volgarità che Fellini sa cosi ben riconoscere. Forse un po’ troppo bene. Ché solo chi è in qualche modo partecipe del male ha quell’interesse per esso che lo rende capace di vederlo e di esprimerlo. Infatti Fellini è un peccatore. Un uomo con le mani sporche come quelle di un bambino — come dice la bella poesia in dialetto romagnolo di Guerra che fa da prefazione al volume.

 


(immagini per cortese concessione della Cristaldi Film/CG Entertainment)

NOTE TECNICHE
Il Film

AMARCORD
(Amarcord)
Italia, 1973, 125’
Regia: Federico Fellini
Cast: Bruno Zanin (Titta), Pupella Maggio (Miranda, madre di Titta), Armando Brancia (Aurelio, padre di Titta), Stefano Proietti (Oliva, fratello di Titta), Giuseppe Lanigro (nonno di Titta), Nandino Orfei (il “pataca” zio di Titta), Ciccio Ingrassia (Teo, zio matto), Carla Mora (Gina, cameriera), Magali Noël (Gradisca), Luigi Rossi (avvocato), Maria Antonella Beluzzi (tabaccaia), Josiane Tanzilli (“Volpina”), Domenico Pertica (cieco di Cantarel), Antonino Faà di Bruno (Conte di Lovignano), Carmela Eusepi (la figlia del Conte di Lovignano), Gennaro Ombra (Biscein), Gianfilippo Carcano (Don Balosa), Francesco Maselli (Bongioanni, professore di scienze), Dina Adorni (signorina De Leonardis, professoressa di matematica), Francesco Vona (Candela), Bruno Lenzi (Gigliozzi), Lino Patruno (Bobo), Armando Villella (Fighetta, professore di greco), Francesco Magno (il preside Zeus), Gianfranco Marrocco (il ragazzo Conte Portavo), Fausto Signoretti (il vetturino Madonna), Donatella Gambini (Aldina Cordini), Fides Stagni (professoressa di belle arti), Fredo Pistoni (Colonia), Marcello Di Falco (Principe), Bruno Scagnetti (Ovo), Alvaro Vitali (Naso), Ferdinando De Felice (Cicco).
Informazioni tecniche del Blu-Ray

Aspect ratio: 1.85:1 HD 1080 24p
Audio: Italiano DTS-HD Master Audio 2.0 / Italiano Dolby Digital 2.0
Distributore: Cristaldi Film/CG Entertainment

 

* Consulta la pagina ufficiale del distributore www.cgentertainment.it