TUTTI I COLORI DEL ‘NOIR’
Non è cosa immediato formulare una definizione di ‘film noir’; poiché per alcuni si tratta di una tipologia sui ‘generis’, piuttosto che di un genere ben definito. Esso è spesso visto come un sottogenere del ‘giallo’ che si intreccia e/o si sovrappone ad altri sottogeneri quali il thriller, (o, in forma più sofisticata, mystery), il poliziesco, la detective-story, il gangster-movie, al punto da suscitare legittimo l’interrogativo se esso vada considerato un ‘genere’ oppure uno ‘stile’.
Affermava il critico Schrader: “Il noir non è un genere: la sua definizione non si basa su convenzioni che riguardano l’ambientazione e il conflitto (western – gangster movie), ma piuttosto su caratteristiche più sottili: il tono e l’umore.” In modo certamente attendibile il ‘noir’ può essere visto come una dilatazione del ‘gangster-movie’, il suo naturale proseguimento, caratterizzato da elementi stilistici singolari ed originali. Senza ombra di dubbio però le sue origini vanno ricercate in Europa con registi quali Fritz Lang, Jean Renoir, Julien Duvivier, Jacques Tourneur e altri ancora, spostatisi poi a Hollywood prima o durante la Seconda Guerra Mondiale, a elargire la loro influenza su registi del calibro di John Huston, Orson Welles e Alfred Hitchcock. La singolarità delle tecniche di ripresa risiede nell’uso del chiaroscuro: quella insistita ricerca dei contrasti di luce (violenti ed eccessivi, di derivazione espressionista) accentua l’ambiguità nelle facce dei protagonisti, oppure rende inquietante una rampa di scale, o trasforma una qualsiasi strada cittadina in uno scenario minaccioso. Si possono definire facilmente i ‘topoi’ e gli archetipi a livello di intreccio narrativo, di motivi filmici e tematici. Essi sono costituiti dall’inquietudine, l’insicurezza, l’angoscia, la componente deviante della realtà, la dominante del nero, là dove si incrociano il ‘mistery’ e la ‘detective story’, la presenza di protagonisti vulnerabili, incapaci di controllare gli eventi. Ecco quindi un assunto incontrovertibile: l’uso del ‘bianco & nero’ necessario a dare corpo al ‘noir’; tant’è, non a caso, l’avvento del colore ha segnato, in America, il tramonto del ‘film noir’, sebbene sia possibile rintracciare splendidi esempi di film realizzati nello spirito del ‘noir’ anche tra quelli a colori degli ultimi decenni (“Chinatown”, “L.A. Confidential”; solo per citarne un paio) e poi, si può sottolineare, come gran parte dei registi che vanno attualmente per la maggiore si sono cimentati con il genere ai giorni nostri. Non sono forse ‘noir’ esemplari alcuni film di Martin Scorsese, dei fratelli Cohen, di John Woo? Gli elementi visivi costituiscono l’essenza principale del genere; e l’ambiguità (dei personaggi, figurativa, narrativa), cioè l’adozione di forme dotate di una pluralità di significati, è il suo tratto più distintivo. Nel noir gli elementi visivi sono dunque più importanti dei fattori sociali, il noir è più interessato allo stile che alle tematiche, il fatto di essere stato considerato a lungo un B-movie ha favorito una maggiore libertà di sperimentazione a livello stilistico. La tipologia del personaggio principale del noir è un eroe che vive sempre di fronte alla minaccia della morte, che egli vive come evento ineluttabile. Nei film noir troviamo un uso frequente del flash-back, delle dissolvenze e della narrazione in prima persona. Si tratta di un meccanismo narrativo che consente di accentuare la soggettività della narrazione “vissuta” e testimoniano la sua tendenza a privilegiare l’azione rispetto alla successione razionale degli eventi. Nel 1946 il critico francese Nino Frank usò per la prima volta il termine ‘noir’ per indicare alcuni film americani importati in Francia (‘noir’ era la copertina dei “gialli” francesi) ma secondo l’opinione di gran parte degli studiosi si può considerare come il primo e più importante film ‘noir’ “Il mistero del falco” (The Maltese Falcon) di John Huston del 1941, seguito poi dalla maggior parte dei film hollywoodiani realizzati negli anni Quaranta e nella prima metà degli anni Cinquanta. I precedenti più importanti si possono individuare nei film di gangster della Warner degli anni Trenta (da “Nemico pubblico” di Wellman a “Scarface” di Howard Hawks a “Piccolo Cesare” di Le Roy), nei pulp magazines in voga all’epoca, nel realismo poetico francese di Carnè e Duvivier, e, più indietro, nell’espressionismo tedesco di Fritz Lang e Mabuse. Particolarmente significativo era stato il ruolo dei Pulp magazines con i quali nasceva un genere narrativo che mutuava l’eroe dalla frontiera americana ad un più inqiuetante contesto urbano. Già nel 1920, sulla rivista Black Mask scriveva Dashiell Hammett (ex detective alla Pinkerton) il quale, utilizzando un linguaggio crudo ed immediato, dava origine al prototipo letterario hard-boiled con la definizione delle coordinate del genere a livello di dialoghi, di tematiche e di personaggi, ben oltre il tradizionale approccio di intreccio ad enigma di autori come Agatha Christie, Dick Van Dine, Rex Stout. Il successo che questa letteratura (Chandler, Cain, Woolrich) ottiene negli anni ’40 presso i lettori convince la Warner Bros. ad adattare alcuni dei temi per il grande schermo. Vari fattori storico-politici contribuirono all’affermazione del genere: in pieno periodo bellico e/o post-bellico, Hollywood era attraversata da una seria crisi, da cui derivava la necessità di produrre film a basso costo. Il pubblico manifestava una certa stanchezza rispetto a film consolatori ed emergeva l’esigenza di un ritorno al realismo, che poteva essere garantito dai molti registi tedeschi che erano emigrati in America (Lang, Siodmak, Wilder, Preminger, Sirk, Litvak, Polonsky, Ulmer). Essi erano appena sfuggiti all’incubo del Nazismo e portavano con loro l’insicurezza e il terrore dell’Europa. Bisogna ricordare, inoltre, come l’America agli inizi degli anni Cinquanta fosse percorsa dal fantasma della ‘caccia alle streghe’ in piena guerra fredda: dappertutto si scorgeva il pericolo comunista. Era sufficiente avere idee un po’ radicali per rischiare di perdere il posto di lavoro; bastava avere in casa certi libri o fare certi discorsi per essere accusati di connivenza con il nemico comunista. Molti scrittori, attori, registi, videro la propria carriera stroncata.
IL MISTERO DEL FALCO
Il film viene universalmente riconosciuto come il capostipite del genere noir. La Warner aveva deciso di adattare per lo schermo un romanzo scritto da Dashiell Hammett, che era in pratica già una sceneggiatura scritta per il cinema. Il film, già portata due volte sullo schermo senza successo, venne affidato, per limitarne i costi, ad un regista esordiente, John Huston e per la parte del protagonista, dopo il rifiuto di George Raft, si opto per Bogart, considerato all’epoca sul viale del tramonto e che invece darà inizio ad una nuova carriera con questo lavoro. In termini produttivi il film era quindi di seconda serie: 300 mila dollari di budget e otto settimane di lavorazione, tutte in interni. Huston elaboròuna sceneggiatura fedele al romanzo, ma soprattutto allo spirito di Hammett. Egli tracciò gli archetipi del genere su diversi livelli: dall’intreccio alla narrazione, dallo stile filmico a quello tematico. Soprattutto gli ultimi due livelli risultano essere i più interessanti, in quanto la caratterizzazione dei personaggi diventava più importante della coerenza del plot narrativo e la continuità delle atmosfere proposte più incisiva dell’attenzione posta nei riguardi dell’evoluzione dell’indagine. Il Sam Spade impersonato da Humphrey Bogart è senza ombra di dubbio la sua migliore interpretazione di sempre, e proiettava l’attore nell’immaginario collettivo con il suo impermeabile e la sigaretta all’angolo della bocca, la smorfia sul volto a sancire un malinconico distacco dalle vicende in cui veniva coinvolto. Bogart ripeterà questo cliché interpretando il Marlowe di Raymond Chandler ne “Il grande sonno” di Howard Hawks. Ma lo straordinario cast che animava il film non si ferma a ‘Bogey’. Mary Astor, l’interprete femminile, diventa il modello di molte dark-ladies che popoleranno il noir americano: pericolosa, ambigua e patetica; ed un terzetto di caratteristi come quello composto da Sydney Greenstreet, Peter Lorre (che aveva interpretato “M, il mostro di Dusseldorf” di Lang) e Elisha Cook, con la componente latente di omosessualità, è di quelli che non si dimenticano facilmente. Si trattava di un film molto dialogato, con una prosa asciutta e fluida alla Hammett, ma è difficile rendersene conto, tanto il suo ritmo è stringato e calzante. Dal punto di vista filmico il film è stato fotografato con gusto espressionista (angolazioni dal basso, profondità di campo, uso aggressivo del grandangolo, ombre e veneziane nell’ufficio di Spade) e gode di un montaggio quanto mai incisivo.
HUMPHREY BOGART
Nato a New York il 23 gennaio 1899, scomparso ad Hollywood il 14 gennaio 1957. Bogart incarna il mito cinematografico immortale per eccellenza. Intrigante, tenebroso, ineguagliabile. È figlio di una agiata famiglia di professionisti: il padre fa il chirurgo, la madre l’illustratrice. Viziato e irrequieto, viene espulso da scuola e si arruola giovanissimo nella marina. Alla fine della guerra prova la strada del teatro e del cinema in ruoli principali molto raffinati, ma di poca presa sul pubblico. Poi nel 1936 firma un contratto con la Warner per essere subito impiegato come il “duro” dei film noir, in linea con la sua vera personalità: nella parte di Duke Mantee è il protagonista del poliziesco “La foresta pietrificata” (accanto a Bette Davis e Leslie Howard), e la sua faccia diventa uno stereotipo del gangster (“Strada sbarrata” di William Wyler, 1937, “Angeli con la faccia sporca” di Michael Curtiz, 1938, “The Roaring Twenties” di Raoul Walsh, 1939). Recita fino a sei film all’anno: non tutti di primo piano ma sempre con ottimi riscontri al botteghino; al punto che la sua fama comincia ad oscurare quella di altre star hollywoodiane come James Cagney ed Edward G.Robinson. I suoi ruoli sono quelli tipici dell’angelo caduto, del dissoluto, del gangster spesso privo di spessore. Ma nel 1941 ecco la svolta della sua carriera: viene chiamato a sostituire George Raft sia in “Una pallottola per Roy” che ne “Il mistero del falco”. Nel primo film il suo personaggio è ancora una volta quello un gangster ma dotato di sfumature diverse dal solito; e Bogart gli aggiunge personalità carismatica in virtù del suo stile sobrio. È un ‘loser’ vittima di un passato che non è in grado di esorcizzare, schiavo della mala alla quale si è asservito. Nell’altro film tratteggia la figura del detective privato Sam Spade uscito dalla penna di Dashiell Hammett, e questo ruolo è la sua fortuna: l’investigatore tutto Borsalino e impermeabile, sguardo che conquista e sigaretta in bocca, ha una morale sua, è caustico e spietato, affascinante ma nessuna donna potrà mai conquistare il suo cuore solitario. Ha carisma da “duro” sardonico e maledetto, la sua maschera è gelida ma soffertamente umana, il suo personaggio anti-conformista, insofferente dell’autorità costituita, nemico dell’ipocrisia. “Bogey” impose un nuovo cliché del giustiziere senza macchia e senza paura, un cliché adeguato alla violenta realtà della sua epoca. L’icona perfetta del bad-good boy. Nel 1943 entra nel mito con “Casablanca” di Michael Curtiz, al fianco di una straordinaria Ingrid Bergman. “Casablanca” è oggi un film di culto in cui la sua interpretazione fatalista del loser nel clima apocalittico della guerra è la quintessenza dell’esistenzialismo. Il film in realtà ha la struttura identificabile di un noir: la durezza del protagonista, l’ambientazione, i caratteri dei personaggi alla deriva. L’etica diventa un fatto personale, il trionfo coincide spesso con la sconfitta, la generosità con il cinismo. Bogart crea il primo personaggio del cinema veramente complesso, fatto di sfumature e di contraddizioni. Il repertorio dei suoi mezzi espressivi si riduce ad una smorfia e ad uno sguardo, in violazione di tutte le regole classiche di recitazione. Con lui ha inizio il rinnovamento di Hollywood. Poco dopo, con il colpo di fulmine che lo indusse al terzo divorzio e al quarto matrimonio, sposa 45enne la 18enne Lauren Bacall, dolce e sentimentale. Accanto alla Bacall interpreta “Acque del sud” (1945), “Il grande sonno” (1946), “La fuga” (1947), “L’isola di corallo” (1948). Proprio ne “Il grande sonno”, Bogart dà vita ad un altro investigatore privato entrato nella storia: Philippe Marlowe, figlio del genio di Raymond Chandler. Un personaggio di certo più raffinato di Sam Spade. La sua vita è una sfida dove le regole del gioco quotidiano le fissa lui stesso. Bogart è un mito e Marlowe incarna il meglio dei personaggi fino ad ora interpretati dall’attore. Vince l’Oscar nel 1952 per “La Regina d’Africa”, dov’è un alcolista che si trasforma per amore di una donna. E poi, maturo ma sempre affascinante, a fianco dell’indimenticabile Audrey Hepburn, recita in “Sabrina”, del 1954. Il cancro si presenta all’improvviso nel 1956 e dopo un anno di agonia, egli muore.
MARLOWE
Il Philip Marlowe uscito dalla fantasia di Raymond Chandler deve molto al Sam Spade de “Il Falcone Maltese” di Hammett, e portato sullo schermo da Bogart, ma con alcune sostanziali differenze. L’approccio di Chandler con la materia è più immediato, la rappresentazione della corruzione e del male è diretto, con un assunto di colpevolezza (e/o di ingiustizia) delineato fin dall’inizio della narrazione; mentre al contrario Hammett lasciava emergere le componenti distintive tra il ‘bene’ e il ‘male’ solo nel corso della narrazione, lasciando il lettore libero di enunciare il proprio giudizio morale. Marlowe (che aveva fatto la sua prima comparsa nel 1939 ne “Il grande sonno“) è una specie di eroe senza macchia né paura – ‘duro’ e misogino ma fondamentalmente onesto. Nel corso della storia del cinema altri interpreti si sono cimentati con il personaggio di Marlowe; ricordiamo Dick Powell (“L’ombra del passato”), Robert Montgomery (“La donna del lago”), George Montgomery (“La moneta insanguinata”), James Garner (“Marlowe l’investigatore privato”), Elliot Gould (“Il lungo addio”), Robert Mitchum (“Marlowe il poliziotto privato” e “Marlowe indaga”). Il Jack Nicholson di “Chinatown” è parente stretto del Marlowe di Chandler – lo stesso personaggio (il detective Giddes) riproposto 15 anni più tardi con “Il grande inganno” – come pure il Paul Newman di “Detective Story” e “Harper acqua alla gola” o il Gene Hackman di “Bersaglio di notte”.
1941-1949
La produzione di film in questo periodo, cosiddetto classico del cinema americano, è copiosa, ed il genere sviluppa tutte le sue potenzialità espressive, influenzato dall’espressionismo tedesco e alimentato dalla letteratura hard-boyled americana. E’ possibile suddividere l’età d’oro del noir in tre grossi momenti: il primo (1941-44) ed è la fase dell’investigatore privato, individuo solitario e dotato di un personale senso morale, descritto da Chandler ed Hammett, incarnato da Bogart e Alan Ladd, e circondato da ‘dark lady’, quali Lauren Bacall, Veronika Lake, Jane Greer e Joan Bennett, il cui fascino porta alla perdizione. D’altro canto, verso la fine dei ’40, innumerevoli film del genere avevano presentato le donne tanto come ricettacolo del male quanto come vittime disperate o figure ambivalenti. Ava Gardner ne “I gangsters” (1946) di Robert Siodmak, Lana Turner in “Il postino suona sempre due volte” (1946) di Tay Garnett e Barbara Stanwyck in “La fiamma del peccato” (1944) per la regia di Billy Wilder, sono tutte raffigurate come donne spietate, che rendono gli uomini loro schiavi per servirsene a fini diabolici. Predominano, in questa fase, le ambientazioni fatte in studio e la verbosità della parola prende il sopravvento sull’azione. “La fiamma del peccato” (con la presenza di una ‘fatale’ Barbara Stanwyck) segna il passaggio tra il primo e il secondo periodo (1945-49), che coincide con la crudezza e la disillusione del dopoguerra, con una concezione cinematografica rigorosamente noir e la rappresentazione di un maggiore realismo (conflitti urbani tra malavita e forze dell’ordine).
LA FIAMMA DEL PECCATO
Da un romanzo di James Cain, sceneggiato da Billy Wilder e Raymond Chandler vien fuori uno dei più bei ‘noir’ della storia del cinema: non si cerca il colpevole di un delitto – tutto è chiaro fin dall’inizio – ma il racconto in flashback (simile a quello di “Viale del tramonto” dello stesso regista del 1950), un melodramma criminale dai toni cupi, cinici e disperati, è di quelli avvincenti e si focalizza su quale sarà la punizione che verrà data agli assassini. La scena filmica è popolata da tutti gli stereotipi che hanno portato alla formulazione del genere ‘noir’, si manifesta pessimismo su ogni possibile redenzione; la morale è ambigua, la cupidigia feroce: davanti ad un universo che è malato di corruzione, non esiste più un codice di comportamento assoluto. Per il suo valore intrinseco il film assume una straordinaria valenza nel linguaggio universale del cinema.
1949-1955
La terza fase (1949-55) è caratterizzata dalla rappresentazione degli istinti omicidi: l’eroe (o l’antieroe) oramai è arrivato al capolinea e mette in scena la propria psicosi distruttiva. Si distinguono alcuni autentici capolavori come “Il bacio della pantera” di Jacques Tourneur (1949) e “Un bacio e una pistola” (Kiss Me Deadly) di Robert Aldrich (1955); anche qui c’è un detective divenuto celebre, Mike Hammer, creato da Mickey Spillane. Nel dopoguerra il ‘noir’ compie una sensibile mutazione nella direzione di un genere più incline a coniugare sia la psicologia che il film d’azione. I limiti di demarcazione si fanno più labili; l’ambientazione rifugge dai sobborghi poveri delle metropoli dell’est, si apre a spazi nuovi, nel tentativo di astrarre e metaforizzare la vicenda del criminale. Le fondamenta sociologiche si perdono, a favore di protagonisti sempre più pittoreschi. Si tende a rappresentare tipi violenti, affetti da aberrazioni psichiche, esseri insicuri ed alienati, vittime di complessi e frustrazioni in una società di psicopatici paranoici, sia fra i criminali che fra le autorità. E’ il momento dell’affermazione di registi come Siodmark, Hathaway, Karlson, Dassin, Ray, Polonsky, Fuller, Aldrich, Siegel, tutti specialisti del genere. Fritz Lang, con “Il grande caldo” (1953), mette in scena un poliziotto (interpretato da Glenn Ford), arrogante e vendicativo, che disprezza l’autorità e ignora le regole nell’interesse di ciò che pensa sia giusto. E’ un personaggio fortemente emotivo, con profonde implicazioni psicologiche, che è stato numerose volte portato sullo schermo cinematografico. L’approfondimento psicologico fu dettato dall’emergere della psicoanalisi. Nell’immediato dopoguerra, la professione di psicanalista divenne celebre a tutti gli americani. Alfred Hitchcock con “Io ti salverò” apre la strada al film psicanalitico. Nel periodo del maccartismo (metà dei ’50) emerge l’esigenza di offrire attraverso il cinema un’immagine più rassicurante della società americana. E’ questo anche il periodo dell’avvento del colore e del Cinemascope. Nella seconda parte del decennio si assiste pertanto ad un’eclisse del genere dovuta ad una involuzione espressiva, con qualche eccezione come quella costituita da “Mano pericolosa” di Samuel Fuller. Al periodo classico (1941-55) seguirà la sua rivisitazione in chiave moderna e post-moderna dagli anni Sessanta in poi.
ANNI ’60 IN POI…
Negli anni Sessanta i critici americani riscoprono la letteratura hard-boiled, pubblicando vari saggi su Chandler. Riappaiono film incentrati sulla figura del detective: interprete privilegiato della società contemporanea (pre-sessantotto) da un lato, dall’altro figura che rimanda alla Hollywood classica e la confronta con un cinema in via di trasformazione, quello della ‘New Hollywood’. Da ricordare su tutti il ‘feroce’ “Senza un attimo di tregua” di John Boorman (con Lee Marvin, Angie Dickinson e Ronald Reagan), tratto da un romanzo di Westlake. All’inizio dei Settanta escono due film: “Ispettore Callaghan il caso Scorpio è tuo” (Dirty Harry) di Don Siegel e “Il braccio violento della legge” di William Friedkin. Il primo rilancia la mitologia del giustiziere che porta nella metropoli il western, esalta l’eroe individualista che vive in maniera conflittuale il rapporto con la comunità; l’altro ridefinisce l’immaginario urbano rifacendosi a film come “La città nuda” e catalogando i cliché di un nuovo realismo. Altri film del decennio (“Il lungo addio”, “Chinatown”, “L’occhio privato”, “Marlowe il poliziotto privato”) rappresentano il detective come modello mitico di comportamento, un idealista che si veste di cinismo, assorbendo nel proprio corpo segnato il distacco morale nei confronti di una società che non sente sua per cui non ne accetta neanche le regole. Alcune linee guida aiutano a catalogare i film di questi anni di rivisitazione in chiave postmoderna: si affronta il genere per il piacere di fare cinema e ricostruirlo nella genealogia della sua formazione (Godard, Scorsese, Cassavetes, Polansky, Truffaut, Fassbinder, De Palma); utilizzarne gli ingranaggi per performance stilistiche vistose (John Woo), o per interpretarlo al femminile (Bigelow, Locke) oppure per ribaltarlo completamente (Kubrick, Lynch) o per ritagliarselo addosso (Eastwood); per prendere le distanze dal citazionismo e lavorare sugli schemi, producendo sintesi davvero inedite (Coen, Kasdan, Walter Hill). Negli ultimi due decenni del secolo scorso si segnala un grande revival del genere. Il poliziesco si diffonde come struttura narrativa ideale, in grado di fornire un racconto dai toni forti e popolari. Viene reiterato il remake (“Il postino suona sempre due volte”, “Il bacio della pantera”, “Due vite in gioco”), il ‘noir’ moderno si accende di sensualità (“Brivido caldo”, “Seduzione pericolosa”, “The Hot Spot”), esalta la tensione (“The Hitcher”) e la depravazione (“Velluto blu”), colloca molti personaggi femminili al centro di storie forti di solitudine e rabbia, di fragilità e forza d’animo (“Doppia identità”, “Nikita”, “Il silenzio degli innocenti”). Particolarmente efficace è il gioco che si instaura nella rappresentazione del ‘doppio’ femminile, la moderna ‘dark lady’, in alcuni film di successo del periodo come “Brivido caldo” (1981) di Lawrence Kasdan, un superbo film-manifesto, “La vedova nera” (1987) di Bob Rafelson, “Basic Instinct” (1992) di Paul Verhoeven e “Analisi finale” (1992) di Phil Joanou. Tutti i sottogeneri vengono chiamati in causa: la magia con “Angel Heart”, il fumetto con “Dick Tracy”, i tutori dell’ordine (“Black Rain”, “Affari sporchi”, “48 ore”) e coloro che vivono ai margini della legge (“Stormy Monday”, “Rischiose abitudini”, “I soliti sospetti”, “Fargo”, “The Killer”, “Pulp Fiction”) o nel mondo degli yuppies (“Cattive compagnie”). E non dimentichiamo come “Blade Runner” sia uno splendido esempio di ‘Noir’ fantascientifico! Numerosi registi (Martin Scorsese, i fratelli Coen, David Lynch, Quentin Tarantino) si cimentano con il ‘noir’ proponendone una propria personale e straniata (ri)lettura. Siamo ancora dinanzi all’inquietudine e all’ossessione. Il cinema se ne nutre come non mai, soprattutto in mancanza di dinamiche individuali e sociali, nella omologazione di emarginazione e criminalità, nella cupa tensione prodotta dalla disperazione e dalla violenza riflesse nella cruda realtà quotidiana.
I FRATELLI JOEL e ETHAN COEN
Tra tante suggestioni, nel costruire un mini-percorso all’interno della produzione più recente vale la pena di osare accorpamenti rischiosi e confronti al limite della specificità dell’assunto; come accade con il talento visionario dei fratelli Ethan e Joel Coen messo al servizio della più intelligente delle riletture di genere in “Crocevia della morte” (1990), in cui inseguimenti, sparatorie, agguati e omicidi sono l’accompagnamento narrativo di un gangster film che è summa del genere, ma che è pure, ancora una volta, esplicitazione di tensioni, odii individuali. Quando Leo (Albert Finney), capobanda mafioso, e Tom (Gabriel Byrne), suo braccio destro, rompono la loro amicizia a causa di una donna, la spirale di scontri e delitti tra gang rivali raggiunge il parossismo: lo stile dei fratelli Coen (Ethan coautore di soggetto e sceneggiatura, Joel anche regista) esalta ogni dettaglio, enfatizza ogni contrasto in un film estremo di furore ossessivo e grottesco, un incubo sovradimensionato di violenza e fuoco. Ma allo stesso tempo non si possono trascurare film come “Blood Simple”, “Fargo” e “Il grande Lebowski”, girati e prodotti dalle stesse mani.
MARTIN SCORSESE
Di gangster e di mafia tratta “Quei bravi ragazzi“ (1990), ennesimo capolavoro di Martin Scorsese, ancora una vicenda tesa e drammatica che esplode sorniona tra le spacconate del giovane Henry Hill (Ray Liotta) e dei suoi compari, l’ambiguo James Conway (Robert De Niro) e il paranoico Tommy De Vito (Joe Pesci). “Che mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster” esclama Henry a ridosso della prima indimenticabile sequenza (i tre amici in auto che “ispezionano” il bagagliaio dell’auto), che già contiene in sè la sostanza narrativa e stilistica di tutto film: quella di un racconto morale, uno spaccato di vera esistenza secondo i canoni e valori di una società sempre più corrotta di cui il film è emblematica rappresentazione. Esemplare la cupa tensione dei momenti cruciali della “caduta” nell’inferno della perdizione: la macchia di sangue che si allarga sul pavimento, il ritmo frenetico della giornata tipo di Henry. In “Quei bravi ragazzi” l’acre sapore del crimine e il crudo gusto del ‘noir’ si stemperano, si fanno sopportabili solo grazie alla magistrale “complicità” che la recitazione di Pesci-De Niro-Liotta sa creare e grazie agli incontenibili virtuosismi registici di uno Scorsese in grandissima vena. Ma l’omaggio al ‘noir’ più sentito da Scorsese è stato il remake di “Cape Fear” (1991), un classico “noir” del 1962 diretto da J.Lee Thompson: un esercizio su un “genere” da parte di un genio della macchina da presa, che risulta essere una dimostrazione di bravura sia per quel che concerne la confidenza con il mezzo cinematografico che per quanto riguarda la direzione degli attori. Con un Robert De Niro psicopatico ‘cattivissimo’ nei confronti della quieta famiglia borghese dell’avvocato (Nick Nolte, Jessica Lange, Juliette Lewis) che ha contribuito a farlo mettere dentro.
OCCHIO INDISCRETO
A proporre un buon esempio di ‘noir’ dei giorni nostri può bastare un solido film come “Occhio indiscreto”, sceneggiato e diretto da Howard Franklin, un debuttante che ha imparato molto bene la lezione del classico cinema nero. Franklin si è ispirato al personaggio reale del fotografo Weegee, che nel film assume il nome di Leon Bernstein ed è interpretato dal bravissimo Joe Pesci. Egli tratteggia il ritratto disincantato di un fotoreporter-spazzatura della New York anni 40 che per amore di Barbara Hershey, proprietaria di un locale notturno, si va a ficcare in un intrigo pericoloso… “Occhio indiscreto” è un piccolo gioiello, girato nello stesso ‘Bianco & Nero’ che ha fatto la fortuna di tanti film dei Quaranta.
(Luigi Lozzi) © RIPRODUZIONE RISERVATA
(compilata da Luigi Lozzi)