JOEL & ETHAN COEN: L’UNIONE FA LA FORZA
I fratelli Joel e Ethan Coen fanno parte oramai dell’eletta schiera dei cineasti dai quali non è possibile prescindere quando si intende parlare di ‘cinema d’autore’. Una categoria cui si pregiano di appartenere (tra i contemporanei) i vari Woody Allen, Francis Ford Coppola, Tim Burton, Quentin Tarantino, Oliver Stone, Ridley Scott, Steven Spielberg, Wim Wenders, Martin Scorsese, Bernardo Bertolucci, Pedro Almodovar e davvero pochi altri ancora.
I Coen fanno parte della generazione dei genialoidi cinefili che sembrano essere nati già con la cinepresa in mano. «Come l’amico Sam Raimi (che però ha una marcia di follia in più), come Tim Burton (che flirta con il versante fantastico), come Quentin Tarantino (che è il più ‘incolto’ e il più irregolare nell’educazione e nei risultati), Joel e Ethan Coen ===Consulta la Filmografia=== sono i figli della moderna cineteca del videostore, della cultura cinematografica accumulata da cinefili prima ancora di esserlo», scriveva di loro Irene Bignardi. E’ probabile che, quando adolescenti decisero di stampare e distribuire a due cent una fanzine dedicata al cinema che si chiamava ‘The Sentinel’, avessero già instillato il germe della cinefilia. Entrambi nati a Minneapolis, nel Minnesota – Joel il 29 novembre 1954, Ethan il 21 settembre 1957 – hanno sempre lavorato in simbiosi artistica: il primo firma la regia, l’altro la produzione ed entrambi la sceneggiatura; ma è difficile stabilire confini, separare nettamente le competenze e nel loro caso si preferisce parlare di direzione ‘a quattro mani’ che gli permette di tenere sotto controllo tutte le fasi della realizzazione cinematografica. Ed amano confezionare i loro film prendendo in prestito pezzi del cinema del passato con l’evidente gusto per la citazione, l’omaggio, l’esercizio di stile, un cinema guardato attraverso la rilettura dei suoi generi e dei suoi luoghi deputati, contaminandoli con grande disinvoltura, con discrezione e intelligenza si sono avvicinati ad alcuni classici punti di riferimento per imboccare subito dopo una strada del tutto personale; la loro genialità sta nel riuscire a passare da un genere all’altro, mantenendo sempre alto il livello qualitativo delle loro produzioni. Decostruiscono il cinema hollywoodiano classico, smontando e rimontando formule, temi e personaggi: il noir di stampo chandleriano di “Blood Simple” o de “Il grande Lebowski”, il gangster movie di “Crocevia della morte”, la screwball comedy di “Arizona Junior” o “Mister Hula Hop”, la ‘finzione’ hollywoodiana di “Barton Fink”, il poliziesco di “Fargo”, il remake dotto di “Ladykillers” e quello di genere per il western de “Il Grinta”, i podromi della ‘Guerra Fredda’ di “Burn After Reading – A prova di spia”, la raffinata ‘favola nera’ di “A Serious Man”, al crepuscolare “Non è un paese per vecchi” degno del miglior Peckinpah che ha fatto entrare i Coen nell’Olimpo dei cinema grazie ai quattro Oscar vinti, fino all’ultimo incantevole ed imperdibile “A proposito di Davis”.
Tra le loro abilità c’è una straordinaria capacità di scrittura; lavorando accuratamente alla sceneggiatura e su uno storyboard spesso molto dettagliato, solido punto di partenza per sostenere l’impianto visivo ricco e complesso del loro universo filmico. Con un linguaggio attuale ed efficace le loro storie sono originali e non scivolano mai nella trappola dell’eccesso, il mondo messo in scena propone una galleria di personaggi, dimessi (un operaio, uno scrittore, un idiota, un gangster, una donna poliziotto o un reduce degli anni ’60), a volte caricaturali e parodistici, ma umanissimi; quello che si potrebbe definire come ‘l’umano troppo umano!’. «I personaggi dei Coen sono la faccia negativa dell’America, l’inverso del mito» (Yannick Dahan, su Positif); il crimine che alletta l’uomo comune con le sue facili promesse, e poi finisce per schiacciarlo, è uno dei loro temi preferiti (da “Blood Simple” a “Fargo” a “L’uomo che non c’era”). E così facendo i due fratelli hanno incantato critici e cinefili, riuscendo a realizzare un cinema estremamente raffinato ma all’insegna di un carattere di artigianalità familiare anche quando si trova all’interno di una produzione dal grosso budget. Sono stati spesso definiti dei manieristi, alla stregua (ad esempio) di un Brian De Palma, di un Woody Allen o di altri registi degli anni Ottanta, perché si sono resi protagonisti del rifacimento del cinema altrui ma quello che appare evidente nella loro poetica è il ripensamento del sogno americano con tutti i suoi paradossi, il puntare il dito, talvolta in modo feroce, contro i falsi miti e gli stereotipi dei media, una costante della loro opera, frutto dell’innegabile capacità di ‘usare’ il cinema come mezzo che permette loro di trasformare ogni film in una riflessione all’apparenza lieve ma decisiva sul significato profondo dell’arte cinematografica. Osannati in patria come all’estero, hanno fatto incetta di premi: “Barton Fink” si è aggiudicato nel 1991 la Palma d’Oro ed il premio per la migliore regia a Cannes, nel 1996 ancora a Cannes hanno vinto il premio per migliore regia per “Fargo” che l’anno dopo vincerà anche l’Oscar per la migliore sceneggiatura. Nel 1998 vengono premiati con l’Orso d’oro a Berlino per “Il grande Lebowski”, nel 2000 è la volta di “Fratello dove sei?” che ottiene due candidature agli Oscar per la migliore sceneggiatura non originale e per la fotografia; la consacrazione definitiva si compie nel 2008 con i tre Oscar vinti per “Non è un paese per vecchi” (Miglior Film, Miglior Regia e Miglior Sceneggiatura Non Originale), assieme a numerose altre ‘Nomination’ ricevute negli anni. Il film più recente, “A proposito di Davis”, presentato in concorso al Festival di Cannes 2013, ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria. La Factory dei Coen si struttura quindi come una sorta di progetto-cinema cui prendono parte persone fidate come ad esempio Frances McDormand, moglie di Joel ed attrice emblema consacrata da “Fargo”, come gli ottimi direttori della fotografia Barry Sonnenfeld prima e Roger Deakins da “Barton Fink” in seguito. E c’è poi la scelta degli attori; tutti straordinari poiché il cinema dei Coen, così attentamente ‘scritto’ necessita di presenze fisiche ‘(a)normali’. Gli strali della loro verve critica hanno colpito in egual misura la ruralità (“Blood Simple”), il consumismo (“Arizona Junior”), l’eroismo (“Crocevia della morte”), la libertà dell’arte (“Barton Fink”), il capitalismo (“Mister Hula Hoop”), la provincia (“Fargo”), la controcultura (“Il grande Lebowski”) come la stipula di accordi prematrimoniali blindati (“Prima ti sposo, poi ti rovino”) e il mondo ebraico (“A Serious Man”), le radici della musica americana (“Fratello, dove sei?”) così come il momento del passaggio epocale dalla musica folk alla grande musica d’autore avvenuta nel Greenwich Village agli inizi dei Sessanta (“A proposito di Davis”), ma poi anche i generi, il Noir (“L’uomo che non c’era”), il Western (“Il Grinta”), le Spy-Story (“Burn After Reading – A prova di spia”), la Commedia degli equivoci (“Ladykillers”), la letteratura americana contemporanea (“Non è un paese per vecchi”).
Joel ha studiato cinema alla New York University mentre Ethan ha invece conseguito una laurea in filosofia a Princeton. Joel ha iniziato la sua carriera come aiuto montatore in diversi film horror a basso costo, è poi diventato assistente di Sam Raimi per “La casa” nel 1983 (e col regista ha anche sceneggiato “I due criminali più pazzi del mondo” nell’1985). I due iniziano a lavorare in coppia, dopo essere riusciti, tra infinite peripezie, a racimolare gli 800.000 dollari necessari per l’esordio, e si conquistano subito le simpatie dei cinefili con i loro primi tre film tra l’84 e il ‘90: un noir imprevedibile e originale come “Blood Simple – Sangue facile” – una squallida storia di disgraziati ambientata nel Texas, che viene presentata a Cannes con buon riscontro di critica -, una buffa commedia come “Arizona Junior”, una personale rilettura di Dashell Hammett con “Crocevia della morte”. In “Blood Simple” si coglie la struttura classica del noir che si richiama alla memoria l’intrigo fitto de “Il grande sonno” (Howard Hawks, 1946) e la tradizione letteraria dei vari James M. Cain, Dashiell Hammet, Raymond Chandler, oltre che l’amore per Hitchcock. E’ un capolavoro di humor nero nel quale i personaggi restano intrappolati tra lussuria e cupidigia e percorrono una strada senza ritorno nell’orrore. Un po’ sopra le righe ma senza mai ricorrere ad artifici ad effetto e mantenendo sempre alto il tocco dell’ironia. Il film, che oggi, a distanza di anni, può essere visto come l’antesignano di lavori come “Le iene” di Tarantino, incassa tre milioni di dollari e le major tendono l’orecchio, ma le sirene non incantano i due fratelli che preferiranno procedere tenacemente sulla via del cinema indipendente. “Crocevia della morte” (“Miller’s Crossing”, 1990) mescola il film di gangster con la tradizione hard-boiled di Dashiell Hammet. Nel 1991 avviene la consacrazione con “Barton Fink – E’ successo ad Hollywood”, una riflessione metalinguistica sui meccanismi della finzione con sullo sfondo la Hollywood degli anni ’40, con cui vincono la Palma d’oro al Festival di Cannes. Curioso che presidente di giuria fosse allora Roman Polanski, al quale i Coen (hanno dichiarato) di dover molto in quanto ad inspirazione. Con “Mister Hula Hoop” (“The Hudsucker Proxy”, 1994) si ritorna nei territori della commedia, tra citazioni di Frank Capra e Preston Sturges. Il percorso straniante nei territori del noir e delle tematiche hitchcockiane affrontato sin dall’esordio ha il suo momento cruciale con “Fargo” (1995), parabola inquietante sulla corruzione dell’animo umano, partendo da una storia vera e tracciando uno spietato ritratto della stupidità piccolo borghese. Al riguardo dell’ispirazione dovuta ad Hitchcock Joel ha dichiarato: «Non è che abbiamo pensato a Hitchcock. Ciò che amiamo di lui è la sua capacità di giustapporre momenti orribili e momenti divertenti. Si potrebbe vedere l’influenza di Hitchcock in questo aspetto del film, ma “Fargo” non è costruito sulla suspense (…). Hitchcock è molto formalista: i suoi personaggi, le sue scenografie sono sempre astratti, le sue inquadrature sono pensate come delle idee. Ci sono momenti in cui esprimono perfettamente delle idee molto astratte. Io non vedo questo in “Fargo”, ma in “Blood Simple” (…); allo stesso tempo, c’è in Hitchcock qualcosa di molto distante, di impassibile, che può fare pensare a “Fargo” (…). Hitchcock amava sperimentare sul racconto, soprattutto sul modo di introdurre i personaggi e poi di farli sparire. “Fargo” è l’inverso di “Psycho”: l’eroina non appare che a un terzo del film, il che contrasta con le convenzioni del racconto classico. Da questo punto di vista Hitchcock ci ha influenzato». Con “Il grande Lebowski” (“The Big Lebowski”, 1998), magistralmente interpretato da un Jeff Bridges assai ispirato (ma tutti gli attori di contorno primeggiano, da John Goodman a Julianne Moore, a John Turturro in ruoli dai contorni surreali), il noir (ma sarebbe meglio definirlo un anti-thriller) viene colorato con lo splendore del musical e conferma la vena creativa, astratta e surrealista dei due, tanto da meritarsi l’Orso d’oro a Berlino nel 1998. Un lavoro splendido con alcuni momenti davvero esilaranti, tra i migliori della stagione d’uscita, che brilla per originalità e invenzione e il cui incipit, all’apparenza, sembra assolutamente banale: una giornata come un’altra a Los Angeles per il protagonista Jeffrey Lebowski, o meglio ‘Drugo’ – che ama il quieto vivere, i suoi amici, gli spinelli, i cocktail White Russian e su tutto il bowling, l’unico argomento che veramente gli sta a cuore -, che improvvisamente prende una svolta imprevedibile e tutto sembra diventare più grande di lui, immergendolo fino al collo in una situazione dai risvolti sorprendenti. Una sceneggiatura tanto improbabile quanto imprevedibile ed assurda, ma un film intelligente ed entusiasmante che mostra di apprezzare coloro che decidono per tempo di scendere dal carrozzone rutilante dell’’american way of life’ e di non farsi stritolare dai suoi meccanismi. Probabilmente, vogliono dire gli autori, l’unico atteggiamento possibile nei confronti del mondo è quello mostrato da questo anarchico svogliato e affascinante Drugo. “Fratello dove sei?” (2000) è una rilettura dell’Odissea adattata sulle peregrinazioni di un terzetto di evasi in fuga degli anni Trenta, nel bel mezzo della Grande Depressione, nel sud degli Stati Uniti. Gli episodi cardine della saga di Ulisse ci sono tutti anche se dilatati dall’approccio parodistico: dal vecchio vate cieco, che qui è un uomo di colore che vaga per il Mississippi su un carrello ferroviario, alcune discinte fanciulle (le sirene) che lavano i panni nel fiume, un venditore di Bibbie (con un occhio solo), assai più furbo del ciclope Poliremo. E l’Ulisse di turno, un simpatico imbroglione (George Clooney con due baffetti alla Clark Gable e capelli unti di brillantina) cui non fa difetto la parlantina che ammalia. Così riesce a portarsi dietro un paio di compagni ai lavori forzati dando loro a bere il miraggio di un fantomatico bottino di 1,2 milioni di dollari da spartire, mentre invece egli cerca solo di raggiungere la moglie Penny (Penelope) per impedirle di risposarsi, ma quest’ultima a tutto pensa piuttosto che a tessere la tela nell’attesa del ritorno del marito, più una serie di altri personaggi che incrociano con grande ritmo e situazioni incredibili la strada con i fuggitivi prima del pirotecnico finale. Grandissima colonna sonora in stile bluegrass e musica del Delta del Mississippi che accompagna tutto il film. Sono sicuro che tra qualche anno parleremo di “L’uomo che non c’era” come di un capolavoro. Il film, uscito nel 2001, già adesso è considerato importante, ma attendiamo che si sedimentino i giudizi – dicevano i critici allora -, che magari i Coen abbiano girato qualche altro film, per accorgercene compiutamente. Si tratta del grande ritorno al noir, un esplicito omaggio ai film degli anni ’40 (citazioni delle classiche pellicole da Billy Wilder a Fritz Lang, l’immancabile voce fuori campo), questa volta ancor più accentuato dalla una morbidissima fotografia in B&N dominata dalle ombre, che riconferma la grande capacità del duo e, per tempi della narrazione e psicologia dei personaggi, ci riporta dalle parti di “Fargo”. La storia è ambientata alla fine dei ‘40, quando un barbiere di provincia, laconico, privo di entusiasmo per la vita e succube di tutti, l’esatto contrario di sua moglie, dinamica, allegra ed infedele, approfitta dell’infedeltà della coniuge per organizzare un ricatto da diecimila dollari… Sono piccoli i personaggi che si muovono sulla scena, tutti avvolti da una spirale tragica e tutti inevitabilmente destinati alla sconfitta, e appartengono a quella visione ampia e più pessimistica dell’esistenza che è propria dei Coen. Sceneggiatura come sempre accuratissima dove nulla è gratuito o superfluo, la regia è calibrata, il camaleontico e versatile Billy Bob Thorton (qui invecchiato e ingrigito) è perfetto nel prestare al protagonista tutta la sua bravura; un personaggio laconico, taciturno, imperturbabile, il fantasma di se stesso («nessuno vedeva me, e io non vedevo nessuno»). Nel 2003 arriva “Prima ti sposo poi ti rovino”, una commedia di genere, cinica ed efficace, un divertimento intelligente che è come sempre espressione del delizioso tocco dei Coen ma rappresenta quasi una pausa nel loro percorso artistico, venendo a mancare la consueta raffinata originalità e la stupefacente inventiva di altri lavori. Il primo elemento di giudizio viene fornito dalla scelta di adottare un copione che giaceva da anni nei cassetti degli studios. Il soggetto però non smentisce la vena critica e provocatoria nei confronti di certo perbenismo americano e tratta del perverso connubio tra denaro e matrimonio che presiede a tante unioni sancite in nome di regole per le quali il conto in banca è di gran lunga più importante dei sentimenti, anche se vengono a mancare le giravolte surreali cui eravamo stati abituati in precedenza. «Appunto: è un film diverso e fatto con gusto popolar-sontuoso – ha detto Ethan – e anche commerciale, in modo speriamo acuto, per un’epoca che vive di apparenze, ciak dopo ciak, anche nella realtà, come in quell’oasi artificiale che è Beverly Hills. Dove spesso si vive per divorziare e assicurarsi un nuovo tenore di vita. Ci sono personaggi diversi: il produttore tv di soap, naturalmente, e di reality show, interpretato da Geoffrey Rush, che si aggira per Down Town, come un banchiere pazzo e senza più denaro di Hong Kong. O l’investigatore Gus, impersonato da Cedric the Entertainer». Però si ride! Si ride di gusto e in modo intelligente grazie alla solita stralunata galleria di personaggi estremi di contorno (Thornton in testa e poi caratteristi di alto livello) che hanno fatto la fortuna di tutti gli altri film della loro carriera. Eccellente George Clooney (che tornava a collaborare con i Coen), perfetta Catherine Zeta-Jones nella sua bellezza volutamente artificiale.
Nel 2004 è la volta di “The Ladykillers”, un libero remake de “La signora omicidi” (1955) con Tom Hanks, al posto di Alec Guinness; una commedia noir in cui è riconoscibile il tocco distintivo della premiata ditta Coen.
Per un’analisi più dettagliata degli altri film dei fratelli Coen rimandiamo alle recensioni specifiche che troverete sulle pagine del nostro sito.
(Luigi Lozzi) © RIPRODUZIONE RISERVATA
(immagini per cortese concessione degli aventi diritto)
Il Coen-Pensiero:
ATTORI (1). Credo che importi poco il modo in cui si dirige un attore. Salvo che gli si dicano cose come: “La situazione è così, è tutto”, ci si ritroverà davanti la situazione che descrivete.
Tutto quello che si può fare è dare all’attore un’idea generale del modo in cui si vuole che interpreti la parte; è a partire da questo che egli estrapolerà e inventerà tutti questi piccoli dettagli.
ATTORI (2). Siamo generalmente d’accordo sul tipo di interpretazione che vogliamo. Non abbiamo sorprese sul set perché facciamo molte prove preliminari. In più quando abbiamo scelto gli attori principali, gli facciamo leggere non una scena o due ma tutta la sceneggiatura.
COPPIE. Joel: Ci piacciono le coppie di uomini come Laurel e Hardy. Esistono per muovere la storia, gli altri personaggi, tutto. È come una vecchia idea di Dashiell Hammett: un personaggio esterno interviene in una situazione e si osservano le reazioni che provoca.
CORNICI. Ci è sempre piaciuto mettere la storia dentro una cornice, creare una certa distanza che ci allontana dalla realtà.
FORMA E CONTENUTO. È l’eterno problema dello stile. La gente separa sempre lo stile di un film dal resto: il soggetto, i personaggi. Quella che conta è la maniera più appropriata di trattare una situazione, una scena… nel caso di Arizona Junior, lo stile si addiceva perfettamente a quello che volevamo raccontare: però sembrava più evidente, visibile. (…) [In Barton Fink] la logica interna del film è differente. Il soggetto è un po’ fuori norma. L’intenzione è quasi surrealista. Il film parla di forze che aggrediscono il personaggio, al punto da diventare un po’ irreale… e lì, ancora, lo stile del film riflette questo… quindi, ci si può permettere di far roteare la macchina da presa e di farla penetrare nel buco del lavandino senza che ciò sia più di tanto choccante.
GENERE. Generalmente, quello che ci interessa nel nostro rapporto con un genere, è di deludere l’attesa dello spettatore, che è condizionato dalle regole e i cliché, per spingerlo nella direzione opposta. Più il nostro film sembra citare altri film appartenenti al genere, più noi tentiamo di minare il genere dall’interno modificando le situazioni, le reazioni dei personaggi, i loro rapporti.
HITCHCOCK. Non è che abbiamo pensato a Hitchcock. Ciò che amiamo di lui è la sua capacità di giustapporre momenti orribili e momenti divertenti. Si potrebbe vedere l’influenza di Hitchcock in questo aspetto del film, ma Fargo non è costruito sulla suspense (…). Hitchcock è molto formalista: i suoi personaggi, le sue scenografie sono sempre astratti, le sue inquadrature sono pensate come delle idee. Ci sono momenti in cui esprimono perfettamente delle idee molto astratte. Io non vedo questo in Fargo, ma in Blood Simple (…); allo stesso tempo, c’è in Hitchcock qualcosa di molto distante, di impassibile, che può fare pensare a Fargo (…). Hitchcock amava sperimentare sul racconto, soprattutto sul modo di introdurre i personaggi e poi di farli sparire. Fargo è l’inverso di Psycho: l’eroina non appare che a un terzo del film, il che contrasta con le convenzioni del racconto classico. Da questo punto di vista Hitchcock ci ha influenzato.
HOLLYWOOD. La nostra vita professionale a Hollywood è stata particolarmente facile, il che è senza dubbio insolito e ingiusto. Abbiamo finanziato da soli il nostro primo film Blood Simple, e i tre seguenti sono stati prodotti dalla Circle Film a Washington. Ogni volta abbiamo presentato loro una sceneggiatura che è piaciuta, e si sono detti d’accordo sul budget. Non abbiamo sceneggiature rifiutate nel cassetto. Ci sono certamente progetti sui quali abbiamo cominciato a lavorare, ma dei quali non abbiamo concluso la stesura per una ragione o per l’altra, sia per problemi artistici che non riuscivamo a risolvere, sia perché il loro costo diventava proibitivo. Ci piacerebbe realizzare uno o due cortometraggi che abbiamo scritto, ma è difficile produrli in America perché non hanno mercato.
IMPROVVISAZIONE. Quello che ci distingue dagli altri registi è il nostro modo di lavorare: quando scriviamo una sceneggiatura e questa è terminata, non ce ne allontaniamo mai. Non ci sono più grandi sorprese. È per questo che dettagliamo molto le nostre sceneggiature. Parlando del pubblico, pensiamo che un film che non attira il pubblico sia un insuccesso.
INDIPENDENTI. Certi film sono chiamati indipendenti a causa della natura dei loro finanziamenti. Ma ce ne sono anche alcuni prodotti dagli studios, che sono veramente dei film indipendenti. Tutti quelli fatti da Scorsese, ad esempio. Possono essere considerati parte del cinema indipendente, anche se sono finanziati dagli studios.
ISPIRAZIONE. È strano ma certi film si presentano quasi interamente formati nella vostra testa. Sapete già come saranno visivamente, e forse anche senza conoscere esattamente la conclusione, intuite il genere di emozione che si manifesterà alla fine. Al contrario, altre sceneggiature sono un po’ come dei viaggi che si sviluppano progressivamente senza che voi sappiate davvero dove state andando.
KAFKA. Ethan: Non è che sia un lettore di Kafka… per essere onesto non ho letto nessuno dei suoi romanzi. Joel: Io devo aver letto delle cose brevi…
KUBRICK. Il riferimento a Kubrick ci era già stato fatto, ma io capisco solo ora l’accostamento. C’è un aspetto molto formale nel suo approccio alla materia, e una progressione regolare dal prosaico verso il barocco.
METODO. Noi lavoriamo sempre insieme. La divisione del lavoro suggerita dai titoli è molto arbitraria. In realtà noi realizziamo e produciamo insieme tutti i nostri film, e così è sempre successo. Stiamo insieme sul set, discutiamo con i tecnici e gli attori, senza grandi distinzioni di ruoli.
MORALE. Bisognerebbe che qualcuno mi spiegasse che cosa significa “amorale” nel contesto di un film. Che cos’è una storia amorale? (…) Se si cerca di dare una morale in una storia, non può che essere banale. È la vicenda a essere interessante, non le banalità che se ne possono ricavare. (…) Abbiamo scritto una storia in cui un uomo ascolta il suo cuore e poi se ne pente. Ma avremmo comunque potuto scriverne una nella quale un personaggio ascolta il proprio cuore e se ne rallegra.
MUSICAL. Abbiamo sempre voluto ispirarci a Busby Berkeley perché è uno dei nostri eroi. È un coreografo incredibile che non si preoccupa mai di giustificare quello che fa. Ci affascinano la sua audacia e la sua libertà. È difficile rifare questo miscuglio di sorpresa e precisione. L’ammiriamo ancora di più dopo aver cercato di imitarlo.
NARRATORI. Siamo attirati da quel genere di personaggi strani che, in un racconto, sembrano avere una posizione privilegiata, conoscere il futuro… come il personaggio che in Moby Dick annuncia al narratore che cosa gli succederà.
REALISMO. A livello di realismo, il nostro modo di lavorare, quando ci pensiamo, si risolve nella domanda: da spettatori, noi rifiuteremmo quello che vediamo? Avremmo la stessa reazione? Quella cosa sembra un po’ artificiale, ci impedisce di entrare nella storia? E siamo giunti a questa conclusione: no! Credo che sia il solo modo di procedere: arrivare a qualcosa di interessante. (…) Non so se è realista, ma in tutti i casi non ci sembra irreale.
REALTÀ E SOGNO. Sarebbe stato incongruo, ad esempio, che Barton Fink si svegliasse alla fine, in modo da suggerire che egli viveva in una realtà più larga di quella del film. Ad ogni modo è sempre artificiale parlare di “realtà” quando si tratta di un personaggio di finzione. Non volevamo lasciare intendere che egli era più “reale” della storia.
REGISTI (1). Joel: Vedevamo molti film, quegli degli anni Cinquanta e degli inizi degli anni Sessanta con Doris Day e Rock Hudson, il peggior periodo della storia di Hollywood. (…)
Quali registi vi piacciono?
Scorsese, Coppola, David Lynch.
Lo humour nero di Kubrick?
Sì, Il dottor Stranamore.
REGISTI (2). Queste tre opere (Le locataire, Cul-de-sac, Repulsion) ci hanno sicuramente segnato. Barton Fink non appartiene ad alcun genere, ma se appartiene a una linea, è sicuramente quella generata da Polanski.
RIVEDERE. I nostri film hanno per noi una considerevole importanza nel momento in cui li realizziamo e li scriviamo. Ma quando sono finiti, non ci pensiamo più veramente, cerchiamo di non tenerne conto. (…) Non ci guardiamo più indietro una volta che il film è terminato. Non li vediamo più. È quasi doloroso.
SCRIVERE (1). Noi lavoriamo sulla sceneggiatura fino a che non ne siamo soddisfatti, ma durante le riprese rimaniamo per lo più molto fedeli. C’è molta poca improvvisazione nei dialoghi. Quello che al contrario può variare molto, è la concezione visuale del film una volta che gli attori entrano sul set. Durante le prove si può pensare ad altri modi di realizzare una scena con la macchina da presa. Questo vale soprattutto per i dialoghi. Al contrario le scene d’azione sono disegnate in precedenza e noi seguiamo correttamente lo story board. Insomma, non si tratta certo di riferirsi allo story board durante le riprese, ma questo serve da un punto di vista psicologico. (…)
Joel: Noi scriviamo sempre insieme, senza dividerci mai. Ci chiudiamo in una stanza e scriviamo la sceneggiatura dall’inizio alla fine (…). Sul set è un po’ la continuazione della scrittura. Siamo sempre presenti insieme e ci consultiamo continuamente (…). Per una maggiore efficacia e per evitare confusione io parlo con gli attori e comunico per la maggior parte del tempo con l’équipe tecnica, ma per le decisioni di regia è sempre una responsabilità comune. Ethan, d’altro canto, si occupa soprattutto della produzione.
SCRIVERE (2). Ethan: Noi discutiamo insieme ogni scena nei dettagli, senza mai dividerci la scrittura di questa o quella scena. Poi sono io che batto a macchina. (…) Joel: Di solito passiamo quattro mesi sulla prima versione, che mostriamo ad alcuni amici, poi dedichiamo altri due mesi a limarla.
SCRIVERE (3). Noi rimaniamo molto fedeli alla sceneggiatura e d’altronde una grande quantità di elementi di realizzazione vi sono già inclusi. Detto questo, verso la metà delle riprese, abbiamo riscritto tutta la seconda parte della sceneggiatura.
TRADUZIONI. Prendere un’opera letteraria preesistente e cercare di adattarla alle nostre idee non ci interessa assolutamente. È lo spirito dell’autore che vogliamo cercare di ritrovare.
(da “Joel e Ethan Coen” di Vincenzo Buccheri – Ed. Il Castoro Cinema)