Cinema

IL CINEMA SUL VIETNAM: UNA FERITA MAI RIMARGINATA

 

 

La Guerra del Vietnam (mai) metabolizzata, sul grande schermo
Il conflitto vietnamita è stato per lungo tempo un incubo nella memoria collettiva degli americani.

 

 

Dopo qualche anno dalla sua conclusione qualcuno cerca di elaborare un giudizio storico su quella “sporca guerra” (come venne etichettata) che sovente, soprattutto negli anni Settanta, ha costituito l’ossatura del processo di identificazione con le problematiche politiche e culturali americane.

Questa é la fine, bella amica. Questa é la fine, mia sola amica, la fine dei nostri complicati piani, la fine di ogni cosa che esiste, la fine, nessuna sicurezza, nessuna sorpresa, la fine. Non guarderò più nei tuoi occhi. Riesci ad immaginare cosa accadrà, senza freni, liberi, disperatamente alla ricerca della mano di uno straniero in una terra di disperazione?…” (“The End” – Jim Morrison, 1967).
Un conflitto durato 16 anni e costato a Washington 58.000 morti, 300.000 feriti, 150 miliardi di dollari, una sindrome psicologica che ha minato la fiducia degli americani nei confronti delle autorità governative. Il 30 aprile 1975, un elicottero che si alzava dal tetto dell’ambasciata americana durante la drammatica evacuazione da Saigon lanciando bombe lacrimogene sulla folla disperata di sudvietnamiti, che volevano poter partire anch’essi, è rimasto nella memoria come il simbolo più vivido della sconfitta nel sud est asiatico e che poneva fine alla più ingloriosa avventura militare degli Stati Uniti. Una sconfitta militare che poi si è trasformata in sconfitta anche morale. Gli americani da allora non si sono sentiti più onnipotenti, hanno cominciato ad avere dubbi sulla infallibilità della loro missione nel mondo e per lungo tempo hanno preferito ignorare e dimenticare il Vietnam. Poi il cinema, cartina tornasole dei cambiamenti che si verificano nella società, ha iniziato a riportare alla luce gli orrori, soprattutto psicologici, i segni indelebili lasciati sulla psiche di migliaia e migliaia di reduci, con una serie di film, tutti siglati a fuoco dalla tematica bellica, che mano mano hanno scandagliato i ‘luoghi’ più reconditi della coscienza di un popolo in una lunga interminabile, seduta psicanalitica. L’argomento del conflitto vietnamita é stato talmente sviscerato nel cinema americano da assurgere esso stesso a genere codificato del cinema, preso in esame da autori importanti e, perché no, anche sfruttato dall’industria a fini commerciali. Certamente il mezzo cinematografico è stato l’elemento primario di riflessione per dare concretezza al duro esame di coscienza necessario a purificarsi dal senso di colpa, con le Majors pronte a tradurre in profitti economici le lacrime del rimorso e dell’autocritica. Grandi momenti di cinema ci hanno restituito gente umiliata nel fisico (“Tornando a casa”, “E Johnny prese il fucile” di Dalton Trumbo, nel quale il protagonista è ridotto ad un troncone umano, “Nato il 4 di luglio“), inesorabilmente minati a livello psicologico (“Taxi Driver”), oppure grazie a flash-back esplicativi (“Platoon“) abbiamo rivissuto i momenti della guerra, con tutta l’atrocità della battaglia, materializzati sul grande schermo. Il “ritorno” dei reduci è stato dipinto come un incubo ancora più doloroso della stessa guerra alienante, si è passati dal monito della realtà sconvolgente della guerra ai risvolti umani del difficile reinserimento. Ma sono figli del malessere post-Vietnam anche i protagonisti di film come “Easy Rider“, “Alice’s Restaurant“, “Fragole e sangue“, “Hair“, “American Graffiti“, quest’ultimo ambientato negli anni precedenti il conflitto ma girato successivamente, a sottolineare gli anni (fine dei ’50 ed inizio dei ’60) della perdita dell’innocenza da parte americana. Ed il Vietnam è stata sicuramente un’esperienza di troppo per l’America della ‘frontiera’ dimostrando quanto la guerra risulti essere un’istituzione assurda e tragica per l’umanità ed i film dedicato al Vietnam operano una la cruda denuncia dell’imbecillità della guerra molto più incisiva di quella dei più consolidati ‘war-movie’, nei quali l’analisi della guerra ha sempre conservato gli schematismi del genere. Sono tre i ‘turning-point’ ineludibili: “Apocalypse Now”, “Il cacciatore” e “Platoon“.
Tornando a casa
“Tornando a casa” (Oscar per la Migliore Sceneggiatura originale e per le interpretazioni dei due protagonisti) diretto da Hal Ashby nel 1978 è il primo dei film dedicati al Vietnam ad ottenne un buon successo al box-office, inaugurando di fatto l’apertura da parte dell’industria cinematografica ad occuparsi di essa in termini di bilanci e di profitti. Il film affronta il problema del rapporto con il conflitto vietnamita all’interno della società americana, ponendo la sua attenzione sulla condizione dei reduci, e con il dichiarato proposito di “ridefinire la nozione di patriottismo e virilità”. Sally (Jane Fonda), è un’infermiera che impegna il proprio tempo in un ospedale dove sono ricoverati gli sfortunati soldati che portano evidenti sul loro corpo i segni dell’insana violenza della guerra e si preparano a vivere il resto della loro vita minati nel fisico e/o nella psiche. Tra questi c’è Luke Martin (Jon Voight), vecchio compagno di scuola di Sally ed ex-giocatore di football, ora costretto su una sedia a rotelle, paralizzato dal bacino in giù. Tra pietismo dell’ambiente e prese di coscienza (Luke per protesta si incatena al cancello di una base militare), i due instaurano prima un rapporto di amicizia e poi allacciano una passionale relazione d’amore nonostante le deficienze fisiche del protagonista. Su questa storia si allaccia quella del marito tradito (e reduce) che non riesce a far fronte al suo squilibrio  esistenziale. Jane Fonda si vede assegnate un Oscar nel 1978 per la sua intensa interpretazione, al pari di Jon Voight premiato anche al Festival di Cannes. Con l’eccellente fotografia di Haskell Wexler e le celebri canzoni dell’epoca di Beatles, Rolling Stones, Jefferson Airplane, Jimi Hendrix e Bob Dylan, il film si propone con un convinto piglio antimilitarista ed una neanche tanto velata presa di coscienza progressista al femminile, anche se molti critici hanno sottolineato la maniera furba ed accattivante di utilizzare gli elementi predominanti del film a fini commerciali. Rimane comunque un lavoro significativo proprio perché anticipatore di un vero e proprio filone.
Taxi Driver“Taxi Driver” di Martin Scorsese venne presentato al Festival di Cannes nel 1976 e fece una grossa impressione sia sul pubblico che sulla critica. In esso la guerra vietnamita non è stata ‘mostrata’ esplicitamente ma pochi film hanno prodotto, nella storia del cinema, la stessa incisiva crudezza nella rappresentazione dei guasti che essa aveva prodotto sui suoi reduci. Guasti che fanno esplodere nel protagonista, Travis Bickle (Robert De Niro), un tassista di New York, gli incubi della tragedia vissuta per cui egli decide di applicare la sua legge per le strade della Grande Mela producendo una carneficina di balordi e diventando per questo un eroe sui giornali. La follia moral-devastatrice del protagonista – stesso tema affrontato anche in “Le mele marce” (Peter Collinson 1974), nel quale un gruppo di soldati, al rientro in patria, sfoga il sadismo disumano assimilato al fronte su ignari cittadini che si godono la natura – diventa momento esemplare sulla violenza metropolitana che si nutre del processo d’identificazione degli americani con i reduci. Il film di Scorsese racconta la New York notturna, le sue insidie, la feccia che vi serpeggia , con disincanto e crudo realismo. Un capolavoro grazie a tutte le componenti che hanno concorso alla sua realizzazione: dalla regia iperrealista all’interpretazione magnifica di De Niro, dalla sceneggiatura di Paul Schrader fino alla fotografia.

Kubrick & Full Metal Jacket
Anche Stanley Kubrick ha dato il suo personalissimo contributo (diciamo) al genere con “Full Metal Jacket”, prendendo però il Vietnam solo a pretesto narrativo per stigmatizzare la guerra nella sua accezione più ampia. La scelta è aderente perché quella vietnamita è la guerra più vicina ai nostri tempi, quella nella quale la stupidità dell’uomo ha trovato la massima rappresentazione della sua stoltezza. Il film di Kubrick parla di rapporti tra esseri umani, della follia che attanaglia l’uomo, dell’idiozia e delle atrocità della guerra. Il regista, a 30 anni di distanza da un “Orizzonti di gloria” pieno di speranza, sembra aver perso ogni forma di fiducia nella razza umana. La scelta di ambienti metropolitani distanti anni luce da giungle vietnamite e eroici combattimenti, è motivata dalla ricerca di un’analisi oggettiva della guerra, mai raccontata attraverso le singole storie o le emozioni degli interpreti: l’avventura e l’eroismo sono inesistenti, o comunque insignificanti, mentre si mette in discussione la crudeltà ingiustificata della lotta tra i popoli. E’ un lavoro sulla guerra ma non di guerra; si racconta di un gruppo di reclute dei marines, vittime prima di una violenza verbale e psicologica, addestrati per diventare ‘non dei robot, ma dei killers’ prima di essere inviate sul fronte della guerra in Vietnam dove scoprono cos’è la guerra prima di imparare a non avere paura. Il soldato Joker, alias Matthew Modine, incarna l’aggressività e la violenza senza senso di cui gli esseri umani sono capaci. Si tratta di soldati schizofrenici che non riescono a conciliare i due aspetti presenti nella loro natura: il pacifismo e la violenza senza freni.
Oliver StoneLa morte è una potente forza della mia vita. Ho spesso pensato alla morte. A diciotto anni sono andato in Vietnam come una sfida alla morte. Ero pronto ad accettarla. Ne ho visto tanta in Vietnam. Penso che i messicani abbiano dannatamente ragione quando dicono di tenere qualcosa che ricordi la morte intorno a sé, come memento, e renderla parte della nostra vita. Per prepararsi a lei, essere pronti.” [Oliver Stone, intervista a Rolling Stone,1996].
Oliver Stone è il regista americano degli ultimi decenni che più di ogni altro ha realizzato un cinema dalle forti connotazioni politiche di denuncia di un sistema (quello americano) che, a suo dire, ha perso la sua innocenza da molto più tempo di quanto i libri di storia abbiano voluto far credere. E nel suo cinema anticonvenzionale, ma abilmente costruito su canoni spettacolari, un sostanzioso capitolo è stato dedicato al Vietnam, la più grande delle vergogne delle quasi deve farsi onere la coscienza civile americana; una guerra cui egli prese parte in prima persona – due diverse occasioni; prima come insegnante poi i 15 mesi di servizio nella Venticinquesima Divisione di fanteria, ferito due volte in battaglia e decorato con una medaglia al valore – derivandone numerosi degli spunti che hanno caratterizzato i suoi velenosi strali contro l’establishment. La disillusione di Stone a contatto diretto con la guerra fu totale: ”Molti tornarono a casa da questa guerra nei sacchi… mentre altri fecero i milioni. C’erano sei o sette non-combattenti per ogni combattente, molti di loro mangiavano bistecche o aragoste ogni sera… Portammo in Vietnam una mentalità aziendale degna di Miamo o di Las Vegas… La corruzione finale fu naturalmente il fatto che il presidente Johnson mandasse alla guerra solo i poveri e gli ignoranti – di fatto attuando una guerra di classe -, mentre i ceti medi e alti potevano schivare il fronte andando al college o pagando uno psichiatra”. Al Vietnam, la sua più accentuata ossessione cinematografica – ne sono riscontrabili accenni anche nella sua attività di sceneggiatore, ad esempio ne “L’anno del Dragone” di Michael Cimino, in cui Mickey Rourke-Stanley White è un poliziotto, veterano del Vietnam, che arriva a Chinatown determinato a ripulire il quartiere con lo stesso maniacale puntiglio di tanti ‘giustizieri’ americani nel sud-est asiatico-, Oliver Stone ha dedicato una trilogia composta da “Platoon”, “Nato il quattro di luglio” e “Tra cielo e terra”, mai negando, sia a se stesso che al mondo intero, che è stata quella dura esperienza a farlo maturare come uomo. Per narrare “Platoon” – la storia della contrapposizione tra due sergenti: uno carico di umanità (Willem Dafoe) e l’altro (Tom Berenger) sanguinario e folle sotto gli occhi attoniti della recluta Charlie Sheen – il regista si era ispirato alla sua esperienza diretta, a due suoi commilitoni (che lo avevano affascinato) dalla forte personalità ma agli antipodi come maniera di interpretare la guerra: uno riflessivo e capace di controllare i propri istinti e l’altro crudelmente iracondo. Il film alla prova dei fatti convince tutti, critica e pubblico, per il suo incisivo taglio da ‘reportage’, per il montaggio serrato ed asfissiante che procura non pochi turbamenti agli spettatori, per il suo incisivo sondare la natura umana, per la bellezza delle immagini con contrappunto di luci e di ombre. “Platoon” rimane probabilmente il capolavoro assoluto di Oliver Stone; nel 1986 su otto ‘Nomination’ si aggiudicò ben quattro Oscar: Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Montaggio e Miglior Sonoro. E Stone ha molti meriti; la sua è una requisitoria spietata che fa discutere e smuove polemiche furiose, ma rimane, nel bene e nel male, un cinema non omologato ai canoni di una Hollywood interessata unicamente a non turbare gli animi degli spettatori. Insomma egli è stato un regista ’contro’ pur esprimendosi all’interno del sistema produttivo hollywoodiano. Nel 1989 Stone dirige il ‘sequel’ ideale di “Platoon”, “Nato il quattro di luglio”, affrontando i disagi psicologici (e la catarsi evolutiva) di un reduce. Il protagonista (un Tom Cruise mai stato così bravo né prima né dopo), nato da una famiglia nazionalista americana, tipico patriota privo di senso critico (non è casuale la scelta di farlo nascere ‘simbolicamente’ il 4 luglio, giorno dell’Indipendenza), torna dal Vietnam menomato e reso impotente da una paralisi. Ispirato alla storia autobiografica di Ron Kovic, il film porta sul grande schermo la presa di coscienza che lo spinge a diventare un leader del movimento pacifista e gli permette, nel 1976, di essere invitato alla Convention democratica. E nella storia di Kovic, con il quale Stone allacciò un profondo legame di amicizia, il regista fa convogliare le storie di centinaia di altri reduci, lui stesso compreso. La perdita della potenza sessuale del giovane è la metafora della perdita di onore da parte di una nazione intera, che per troppo tempo ha coltivato ipocritamente il suo ‘american way of life’, i sani valori cui tutti i bravi ragazzi  americani dovevano attenersi e l’ideologia del ‘migliore’ che deve primeggiare a tutti i costi, mentre la guerra restituisce un relitto umano reietto dalla società. Otto nomination e due Oscar (Regia e Montaggio). Poi nel 1993, a completare un’ideale trilogia, arriva “Tra cielo e terra” che però si differenzia dai precedenti lavori perché protagonista della vicenda narrata è una donna vietnamita, sposatasi con un americano e che vive un difficile periodo di adattamento ed integrazione negli States fino alla decisione di far ritorno alla propria terra. Si realizza in questo modo un ribaltamento di prospettiva che consente al regista una parziale pacificazione con se stesso. Ma il film non suscita le attenzioni dei ‘media’ come i precedenti lavori, anche perché giunge in un periodo in cui l’interesse per il filone è sostanzialmente scemato. Ma, nell’iter artistico ed umano di Oliver Stone, “Tra cielo e terra” ha una valenza significativa poiché è segnato dalla ‘scoperta’ del buddismo da parte del regista che gli procura la serenità necessaria a fare i conti con fantasmi del suo passato. Oggi Oliver Stone, nonostante abbia dichiarato di voler abbandonare per sempre il cinema per dedicarsi alla scrittura, sta lavorando ad un’idea di un film che ha a che fare con il Vietnam, “Spite House”, storia di un soldato americano, prima torturato dai vietnamiti, e poi paradossalmente accusato di tradimento in Usa. “Il Vietnam mi appassiona anche perché riguarda la manipolazione dei media, all’inizio fu venduta come una guerra “buona” e solo perché è durata troppo si è scoperta la verità”.
Il cacciatore
Michael Cimino, dopo aver diretto un film di buon successo (“Una calibro 20 per lo specialista” con Clint Eastwood) ed aver avuta carta bianca dalle majors, realizza “Il cacciatore”, capolavoro indiscusso del cinema americano. Cinque premi Oscar, Miglior Film, Migliore Regia, Migliore Attore non protagonista a Christopher Walken, Miglior Sonoro e Miglior Montaggio. Sei versioni diverse della sceneggiatura, otto mesi per il montaggio, una fotografia di gran qualità ed una serie di lunghe scene filmate con l’audio in presa diretta. Quando il film esce nelle sale, nel 1978, è in atto una seria rilettura degli eventi relativi al conflitto in Vietnam ed “Il cacciatore”, coniugando sentimenti forti e crudeltà, offre un affresco magniloquente dell’America proletaria degli anni Settanta coinvolta in una guerra inutile e Cimino dà corpo visivo all’epopea di una sconfitta. Alcuni amici operai (tutti immigrati russi) nelle acciaierie della Pennsylvania sono chiamati a combattere in Vietnam dove vengono catturati e torturati dai vietcong con il sadico gioco della roulette russa. Riescono a fuggire. Uno di essi (Robert De Niro) torna alla vita civile con le spalle forti ma segnato da quell’esperienza, un altro (John Savage) ha perduto entrambe le gambe ed è ai limiti della sopportazione esistenziale, il terzo, Nick (Christopher Walken) è restato in Vietnam dove è diventato un giocatore d’azzardo proprio nel gioco terribile della roulette russa. Nel film si coglie il tormento autodistruttivo degli Usa ma si avverte pure l’orgogliosa volontà di riprendere il cammino dopo, diciamo, un incidente di percorso. il duello di Nick alla roulette russa è una sfida con se stesso e non con il nemico, è al contempo sfida con il lato oscuro di ognuno di noi e con l’intera società americana. Il film di Cimino è senz’altro un film ambiguo che si presta a strumentalizzazioni di opposte tendenze; da una parte appare come la critica profonda ad un sistema sociale portato direttamente dal suo interno, da un regista americano (ma non di origini americane, quindi un immigrato, quindi ‘non’ un discendente diretto dei pionieri colonizzatori dell’Ovest) in un assai lucido processo di autocoscienza in nome di tutto il popolo americano, dall’altra si colgono istanze reazionarie quando il film sembra ammantare l’idea di un’America che, una volta leccatesi le ferite di una guerra da dimenticare, si sia proiettata verso un futuro all’insegna dell’imperialismo reaganiano. Forse, con fretta eccessiva, è stato interpretato come un momento di epopea americana per il fatto di mostrare come vittime gli americani impegnati nel Vietnam, mentre invece cominciano ad essere enunciate quelle critiche di Cimino al sistema americano che troveranno concreta e più chiara rappresentazione nel fallimentare e criticatissimo “I cancelli del cielo”. Comunque “Il cacciatore” ha avuto il pregio di saper insinuare i suoi strali velenosi nell’inconscio collettivo americano meglio di qualsiasi altro film sul Vietnam. L’orrore della guerra è stato espresso in maniera sconvolgente. Con grande sicurezza stilistica il film fonde due aspetti comuni a numerosi film; da una parte il clima avventuroso delle azioni belliche, dall’altra i tormenti dei reduci a fornire pregnanza ai contenuti, e risulta essere un’opera di grande impatto spettacolare nel solco di un crudo realismo che fa da apripista a diversi livelli di analisi politica ed esistenziale.
Apocalypse Now
Credevo di fare un film di guerra e a poco a poco il film si é fatto da sé, era la giungla a girarlo, era la nostra follia che a poco a poco ci prendeva tutti, era la paura. Agli inizi avevo pensato di fare un film sulla guerra del Vietnam come se non se ne fossero dovuti mai fare altri e avevo segnato ben duecento realtà diverse che poi sono riuscito a mettere nel film: i soldati drogati, i negri messi sempre in testa alle operazioni di guerra, la vita ricca degli ufficiali, i soldati di 16 anni, i massacri come quelli di Mai Lai, tutto. Poi, mentre lavoravamo, i riferimenti a Cuore di tenebra si sono fatti sempre più necessari, il viaggio fisico lungo il fiume é diventato un viaggio mentale, una ricerca sulle contraddizioni, sui concetti di moralità, di bene e di male, di verità e ipocrisia. E noi eravamo come un corpo di spedizione nella giungla… Anch’io ero a pezzi”  [Francis Ford Coppola, 1979]. Niente di meglio delle parole stesse di Francis Ford Coppola può aiutare a capire la genesi complessa di uno dei maggiori capolavori della cinematografia contemporanea, un film che è soprattutto una parabola esistenziale sulla discesa all’inferno (e ritorno) per lo stesso regista , al di là della collocazione storico-temporale degli eventi. Ma “Apocalypse Now” è anche uno dei contributi più significativi (assieme a “Il cacciatore” e “Platoon“) della presa di coscienza di tutti con il dramma del Vietnam, un viaggio anche nella coscienza individuale alla ricerca della verità per una generazione in crisi di valori. “Apocalypse Now” venne presentato a Cannes nel 1979, accompagnato da grandi aspettative, in una copia incompleta con un montaggio di due ore e venti minuti, ed un finale tutto da decidere tra un paio possibili, e vinse, non senza qualche polemica, la Palma d’Oro (ex aequo con “Il tamburo di latta” di Volker Schloendorff) lasciando allibiti il pubblico e la critica per “mezzi tecnici prestigiosi e potenti, ispirazione creativa e superiore mestiere della regia, appassionata partecipazione dell’autore”. La sceneggiatura era stata scritta nel ’68 dal promettente John Milius (avrebbe esordito con “Dillinger” nel 1973 e diretto inoltre “Il vento e il leone“, 1975, e “Un mercoledì da leoni“, 1978), intorno all’idea di un piccolo film-documentario da ambientare su un fiume, durante la guerra del Vietnam alla fine degli anni 60 e da girarsi a 16 mm. per mano di George Lucas, compagno di corso di Milius all’Università del Cinema della California. Coppola, che rispetto ai due era qualche anno avanti negli studi, ricordandosi di un progetto mai realizzato da Orson Welles fin dai tempi di “Quarto potere“, suggerisce ai due giovani autori di leggersi “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad per il loro Vietnam, e di prevedere un personaggio centrale come Kurtz, il bianco che vive come un re in mezzo alla giungla. Ma poi Lucas dedicherà tutte le sue energie prima per “American Graffiti” (1973), e poi per il kolossal fantascientifico “Guerre stellari” (1977), ed il progetto finisce tra le mani di Coppola – che nel frattempo si è fatto un nome nell’industria della celluloide e si è conquistato 8 Oscar per “Il Padrino I & II” – ma non sarà più un ‘piccolo’ film ma un kolossal sul Vietnam come non se ne erano mai realizzati in precedenza, con un budget iniziale di 13 milioni di dollari (di allora). La realizzazione del film è tra le più tormentate che si ricordino. Le riprese iniziano il 1 marzo del 1976 nella giungla delle Filippine, paesaggio perfetto dove ambientare il Vietnam di Coppola, con una troupe colossale e con il regista che si porta dietro l’intera famiglia, con annessi babysitter, cuginetti ed addirittura i domestici. Coppola mette insieme i soldi vendendo subito i diritti di sfruttamento della pellicola sia all’estero che in patria (la United Artists) e questo gli permette di conservare il controllo totale dell’opera al pari di ogni responsabilità. Ed i  problemi saranno tanti fin dall’inizio. Il cast viene faticosamente messo insieme con fatica perché nessuno ha intenzione di passare diciassette settimane nella giungla. Steve McQueen e Gene Hackman per primi rifiutano la parte di Willard, l’ufficiale che, risale il fiume fino in Cambogia alla ricerca del colonnello Kurtz. Harvey Keitel abbandona il set dopo neanche due mesi. E per il ruolo di Kurtz stesso, che durerebbe solo tre settimane, rinunciano in rapida successione, Al Pacino, James Caan, Jack Nicholson, Robert Redford. Accetta invece, dopo qualche tentennamento, Marlon Brando. E’ lui Kurtz, il colonnello disertore, che ha creato in Cambogia un suo regno nella giungla, il sanguinario nascosto nel suo santuario adorato dai suoi uomini come un dio. Willard, il capitano dei servizi segreti che lo deve rintracciare e mettere fine al suo potere, è Martin Sheen mentre Robert Duvall indossa i panni del fanatico colonnello Kilgore, innamorato dell’odore del napalm, che comanda la “cavalleria dell’aria”, una potente squadriglia di elicotteri, che fa volare al suono della “Cavalcata delle Valchirie” di wagner. La fotografia (uno dei punti di forza del film, tanto da meritarsi un Oscar) è affidata a Vittorio Storaro. Ma sono altri i problemi che si presentano imponderabili nel segno di una maledizione che sembra pesare sul film. Numerosi incidenti (un deposito delle attrezzature distrutto erroneamente, un uragano, l’infarto che colpisce Sheen, attacchi di follia e di nevrosi) funestano il set delle riprese nella giungla tanto da costringere l’intera troupe a vivere quasi in un incubo. ‘allungamento dei tempi delle riprese fa lievitare i costi che salgono a più di trenta milioni di dollari, di cui diciotto attinti alla fortuna personale di Coppola. A riprese ultimate (maggio 77) il regista vive la difficoltà del montaggio: deve ridurre le 15 ore di pellicola disponibili ad un film da circuito commerciale e ci mette oltre due anni, giusto in tempo per presentarlo a Cannes 79. Ma ciò che vien fuori da un travaglio del genere è uno dei più amati e discussi “capolavori” del cinema. C’è chi ne decreta il fallimento commerciale e chi ne esalta le qualità intrinseche e visionarie, la sbalorditiva prova d’autore, la sua complessità culturale dove gli elementi conradiani e nichilisti trascendono il valore narrativo del conflitto vietnamita per assurgere ad avventura “metafisica”, a trasfigurazione dell’allucinante realtà della guerra, a simbolo della catarsi universale dell’uomo, un viaggio della coscienza che approda alfine all’ultima spiaggia. Il viaggio, ad esempio, di Willard lungo il fiume è come una visionaria discesa agli inferi nel quale compie un’operazione di identificazione a livello di entità umana, e mano mano che risale il fiume egli sempre più tende a mitizzare la figura di Kurtz, ad identificarvisi, ad interrogarsi sulla natura violenta dell’uomo. C’è un livello della narrazione, quello iniziale, che si cura dell’esteriorità (il viaggio, la truculenta descrizione dell’orrore vietnamita, il surf, le conigliette), ma che mano mano cede il passo ad un livello di lettura interiorizzato, rivelatorio, che “prende corpo” quando la figura di Kurtz-Brando prende forma. Da non sottovalutare il ruolo ricoperto dalla musica, fin dall’inizio con quella “The End” dei Doors che, nel rendere i contorni da incubo del sogno di Willard nella stanza d’albergo, apre in effetti le porte all’apocalisse di Coppola. E come non ricordare la “Cavalcata delle valchirie” che accompagna l’operazione militare del colonnello Kilgore, o ancora la rollingstoniana “Satisfaction” e la “Suzie Q” dei Creedence Clearwater Revival. Vero è, comunque, che Coppola impiega anni (se non addirittura decenni) per riprendersi economicamente dall’inevitabile flop cui è andato incontro per realizzare il film che è stato l’ossessione ed il grande disastro della sua vita. Il film, presentato a Cannes, ancora un ‘work in progress‘, aveva due finali, che Coppola raccontava così: “Il finale “onesto” è quello che dice: c’è un assassino che deve assassinare un re e il popolo lo sa e non lo impedisce perché ha bisogno di un nuovo re, così il primo si sostituisce al secondo. Però c’è anche il finale “bugiardo”: Sheen viene preso per mano dall’unico compagno superstite e si capisce che tornerà a casa negli Stati Uniti”.
Apocalypse Now Redux – NEW VERSION

Dopo 22 anni, ancora a Cannes, viene presentata una nuova edizione del film di Coppola, finalmente libero dalle pressioni esercitate su di lui all’epoca dell’uscita, arricchita dei 53 minuti (la nuova versione dura tre ore e 23 minuti) soppressi nel montaggio del 1979. Le scene inedite aggiungono qualcosa: il film risulta “più sexy – sono parole del regista -, più divertente, più bizzarro, più romantico e più politicamente coinvolgente” dell’altro. Se ne era avuto un piccolo assaggio in “Viaggio all’inferno”, lo splendido documentario sulla lavorazione del film e relative traversie realizzato dalla moglie di Coppola e comparso, di sfuggita, anche sugli schermi italiani. Francis Ford Coppola, aiutato dal montatore Walter Murch, ha aggiunto diverse scene tagliate e due intere sequenze che servono a rendere più incisivo (e dichiarato) l’apologo sul delirio della guerra e la denuncia dell’immoralità del mondo. In questa direzione appare significativa l’espansione della parte del colonnello Kurtz (Marlon Brando) che legge gli articoli dei giornali sulla guerra del Vietnam (ad esempio quando commenta quel numero di “Time” che assicura la vittoria della guerra agli Stati Uniti) poiché delinea in modo più convincente la critica di Coppola al sistema dell’informazione, punto centrale, ed in anticipo sui tempi, della filosofia generale del film. Un lavoro importante è stato operato da Vittorio Storaro sul transfert in technicolor; il vincitore dell’Oscar per la Fotografia si è reso artefice di un complesso processo per recuperare i colori della pellicola originale servendosi di un processo denominato “Dye Transfer“, un procedimento Technicolor utilizzato per gran parte delle pellicole realizzate tra gli anni 30 e 90 e poi abbandonato dopo “Il Padrino” e “Novecento“, grazie al quale si ha una rivitalizzazione del colore e la garanzia che non si verificano degenerazioni del colore.  “Sono 53 minuti di umanità – ha dichiarato il regista – aggiunti al film. C’è tutta la sequenza della piantagione francese che arricchisce il parallelo tra l’esperienza francese e quella americana in Vietnam; lo sviluppo di Kilgore, Robert Duvall; la sequenza d’amore e di sesso tra Aurore Clement e Martin Sheen, Willard; l’incontro di Willard e i suoi con le ragazze di Playboy mandate a “incoraggiare” i soldati in Vietnam. Sono immagini e situazioni che rendono meno ambiguo il finale. Avevo 35 anni quando ho cominciato il film, tutto andava bene, successo e soldi, mi sentivo un giovane regista padrone del mondo. Alla fine del film ero cresciuto, un vecchio, deluso, pieno di problemi, pensavo che non mi sarei mai ripreso e non avrei più fatto un film. Feci l’edizione (montaggio) con la tensione al massimo, dovevo arrivare a una durata di poco superiore alle due ore, allora era inconcepibile un film di tre ore, e soprattutto doveva essere un film di guerra e d’avventura, senza niente di filosofico o di troppo intellettuale; avevamo paura, avevamo già una pessima reputazione. La decisione di portare a Cannes il film incompleto fu sacrosanta, la Palma d’oro e poi il successo del film furono la nostra salvezza”.
Brian De Palma – Vittime di guerra

Dopo Martin Scorsese (“Taxi Driver”, 1976), Michael Cimino (“Il cacciatore”, 1978), Francis Ford Coppola (“Apocalypse Now”, 1979) e Oliver Stone (“Platoon”, 1986), anche Brian De Palma, un altro dei registi americani della generazione nata attorno al 1940, affronta il tema della guerra del Vietnam con “Vittime di guerra” (1989). De Palma è l’ultimo in ordine di tempo a dire la propria sull’argomento e forse, proprio per questo, sceglie di non narrare la guerra – i combattimenti, la gungla, l’impreparazione degli americani e l’astuzia dei vietcong – ma un evento al margine di essa. Il risultato è un film decisamente antispettacolare, la narrazione raccolta in pochi ed esemplari momenti, con tutto ciò che – cinematograficamente – è considerato guerra tenuto a distanza, qualcosa, in fondo, di simile al film di Kubrick. La narrazione – è la storia di alcuni soldati, guidati da un sergente violento (Sean Penn), che in Vietnam stuprano una ragazza vietnamita e ne provocano la morte e vengono denunciati da uno dei soldati (Michael J. Fox) – privilegia i termini morali, tanto che il cineasta ha limitato al minimo gli interventi tecnico-virtuosi, pur lasciandoci però alcune sequenze da cineteca (come quella in cui Michael J. Fox cade solo con le gambe in un cunicolo sotterraneo nemico). Il film è tratto da una sceneggiatura scritta da David Rabe ed ispiratasi ad un articolo scritto per il ‘The New Yorker’ da Stephen Lang, e che già aveva fornito lo spunto per “I visitatori” di Elia Kazan.
Gli altri film…
I primi timidi tentativi di analisi post-Vietnam si rintracciano in pellicole quasi sconosciute. “Glory Boy” (di Edwin Sherin, 1971) è un melodramma a quattro (tre reduci ed il padre di uno di loro) che sconvolge la casa dove si ritrovano, “Il piccione d’argilla” (sempre del 71, di Tom Stern e Lane Slate in cui un ex-decorato scopre l’onnipresenza della violenza, anche in una comunità hippy ove si é stabilito) e soprattutto “The Visitors” (1972) di Elia Kazan. Di stampo teatrale, sviluppato essenzialmente in un paio di stanze, questo film (sceneggiato e prodotto dal figlio di Kazan, Chris) é quasi una lezione ai giovani cineasti su come realizzare un’opera alternativa. Ma vanno ricordati anche “Rolling Thunder” di John Flynn, in cui la violenza accumulata può scoppiare quando dei delinquenti uccidono la moglie di un ex-marine, “Heroes” (Jeremy Paul Kagan, 1977) dove le brutture della guerra hanno tarato il protagonista nel profondo mentre in superficie tutto sembra scorrere normalmente, “I guerrieri dell’inferno” (Karel Reisz,1978) che descrive, con qualche buon momento cinematografico, le peregrinazioni di un ex-marine (Nick Nolte) che deve consegnare alla moglie di un commilitone un pacchetto d’eroina. In “Tracks” (Henry Jaglom, 1975) c’è un altro ex-marine, Jack (Dennis Hopper), che ‘trasporta’ il feretro di un compagno d’armi caduto al fronte sulle vie d’America; ed il protagonista resta per quasi tutta la durata del film sul treno a scoprire le proprie insicurezze psicologiche, che gli impediscono di riallacciare un rapporto sentimentale con la sua donna e di reinserirsi nella società civile. Tant’è che arrivato a destinazione (il cimitero), Jack scoperchiata la bara deposta nella fossa e ne estrae inaspettatamente delle armi. Il fermo-immagine lo blocca mentre esce agguerrito da quella improvvisata “trincea”, pronto all’assalto. La guerra non è ancora finita! Nel 1990 il tema della guerra in Vietnam offre lo spunto ad Adrian Lyne per comporre un buon thriller cupo e paranormale su un reduce della guerra, interpretato da Tim Robbins, che soffre di allucinazioni come altri suoi commilitoni. Il ritmo si fa incalzante (nel senso della crescente suspense) ed il film viene suggellato da un suggestivo finale a sorpresa.

 

(Luigi Lozzi)                                                © RIPRODUZIONE RISERVATA

 

(Articolo scritto nel settembre 2001 e pubblicato sulla rivista Digital Video)

 

FILMOGRAFIA Essenziale del Cinema sul Vietnam

(compilata da Luigi Lozzi)

 

… E qui ci sono alcuni videoclip di canzoni dell’epoca con immagini della Guerra in Vietnam:

Creedence Clearwater Revival – Bad Moon Rising (1969)

Marmalade – Reflections Of My Life (1969)

Barry McGuire – Eve Of Destruction (1965)