DUETS di Van Morrison
ARTISTA: VAN MORRISON
TITOLO: Duets
ETICHETTA: RCA/Sony Music
ANNO: 2015
Prossimo a spegnere settanta candeline (il 31 agosto) Van Morrison non ha smarrito il filo che lo lega al suo pubblico e che, ad onta dell’età incalzante, lo ha di fatto reso assai prolifico nel dispensare i suoi album con grande continuità; anche se, ad onor del vero, sono passati già tre anni da “Born To Sing: No Plan B”, il suo ultimo lavoro. Così in questo 2015 ci regala un disco di duetti con ospiti ed amici illustri (da Steve Winwood a Taj Mahal, da Mavis Staples a Natalie Cole, da Mark Knopfler a Joss Stone a Michael Bublé) in cui ripercorre (in una chiave di lettura parzialmente modificata) alcuni pezzi (16 in tutto) del suo sterminato canzoniere. Morrison è artista che non accetta compromessi e va dritto per la sua strada alimentando un personalissimo stile che spazia tra Blues, Rhythm & Blues, Jazz, Soul, Irish Music producendo magnifiche ballate senza tempo; ed in fondo è per questo che uno zoccolo fedele di fan lo venera appassionatamente perché è consapevole che ogni suo disco non tradirà mai le attese. Qualcuno, in maniera piuttosto approssimativa e superficiale, dice che sia ripetitivo e monocorde, ma sfido chiunque a segnalarmi un artista o un gruppo capace di offrire negli anni, come fa lui, dischi di qualità ed eleganza indiscusse, in ognuno dei quali si cela sempre più d’una perla assoluta: 40 album e almeno 7 raccolte degne di nota in quasi cinquant’anni di carriera a partire dal 1967 ===Consulta la Discografia di Van Morrison===. Vorrà pur significare qualcosa il fatto che la rivista Rolling Stone lo abbia classificato in 42^ posizione nella sua lista dei Cento Migliori Artisti di sempre – immediatamente preceduto, sì, da Doors, Simon & Garfunkel, David Bowie e John Lennon ma lasciandosi pur sempre alle spalle gente del calibro di Sly & The Family Stone, Public Enemy, Byrds, Janis Joplin e Patti Smith – e 24^ in quella dei Cento Migliori Cantanti. Per “Duets – Re-working the Catalogue”, lasciando da parte i classici, il rosso irlandese è andato a rivisitare alcuni dei brani meno noti del suo immenso repertorio, e li ha incisi di nuovo in compagnia di artisti non certo scontati, e mai banali. Non c’è nulla – per intenderci – tratto da “Moondance” (“Crazy Love”, la title-track, “And It Stoned Me”, “Into The Mystic”) o “Astral Weeks” (“Madame George”, “Ballerina”), i suoi dischi più conosciuti e fortunati, e non ci sono neppure (tanto per citare qualche titolo) “Gloria”, “Brown Eyed Girl”, “Domino”, “Here Comes The Night”, “Warm Love”, “Whenever God Shines His Light” o “Have I Told You Lately”, e potremmo andare avanti così a lungo. E solo in apparenza le canzoni prescelte sembrerebbero essere uscite dagli angoli più reconditi del repertorio dell’irlandese di Belfast, perché ognuna ha una sua storia ben delineata, una virtù autonoma (magari sconosciuta ai più), ma è lo spirito che anima le scelte e le interpretazioni volute da Morrison che fanno la differenza e fanno risplendere ogni cosa cui egli ha messo mano. Brani che si fanno apprezzare per la ricchezza degli arrangiamenti e la cura riservata ad ognuno di essi, pronti a trasformarsi in gioielli. E ulteriore differenza, rispetto alle versioni originali del passato, la fanno in molti casi gli interpreti chiamati a misurarsi col questi brani, il loro universo musicale, diverso sì da quello di Van ma accomunato al suo dall’eleganza del linguaggio adottato. Ovviamente ci sono cose più riuscite ed altre meno, ma questo ci sta nella natura di un disco di questo genere. L’apertura è affidata ad una virulenta ed ammaliante versione di “Some Peace of Mind” (brano tratto dall’album “Hymns to the Silence” del 1991) colorata di Soul ’alla Van Morrison’, cantata assieme a Bobby Womack, poco prima della scomparsa di questi avvenuta nel giugno 2014, “If I Ever Needed Someone” (tratto da “His Band and The Street Choir” del 1970) riporta alla luce tutto il fascino gospel originario ed è interpretata da Van assieme alla voce grezza, segnata dalle intemperie della vita, di Mavis Staples, George Benson dona una venatura smooth-jazz a “Higher Than the World” (dall’album ‘spirituale’ “Inarticulate Speech of The Heart” del 1983) mentre Joss Stone offre un contributo (senza infamia e senza lode) a Van in “Wild Honey” (tratta da “Common One” del 1980). “Whatever Happened to P.J. Proby” (presente su “Down the Road” del 2002) viene cantata con grande classe dal titolare proprio assieme a P.J. Proby (nome d’arte per James Marcus Smith), cantante e attore di origine texana classe 1938, attivo soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, da lungo tempo lontano dalle scene, cui in origine fu dedicata la canzone. È poi la cantante jazz inglese Clare Teal invece a sostenere principalmente il peso di una splendida e sofisticata ballata sentimentale qual è “Carrying A Torch” (ancora da “Hymns to The Silence” del 1991) mentre un altro cantante jazz, l’emergente Gregory Porter, in possesso di una voce profonda e soul, impreziosisce un altro piccolo gioiello del disco, “The Eternal Kansas City” (da “A Period of Transition” del 1977), laddove il tappeto sonoro predisposto da alcuni validissimi session-man assicura la migliore delle atmosfere possibili. Al duetto con Mick Hucknall (dei Simply Red) è riservato uno dei momenti topici dell’album, la gemma dal sapore celtico “Streets of Arklow” tratta da uno degli album classici (e più trascurati) di Van ‘The Man’, “Veedon Fleece” del 1973. Nella delicata ballata mid-tempo, “These Are The Days” (da “Avalon Sunset” del 1989), uno dei pezzi migliori del Morrison anni ’80 (nel periodo dei dischi di soul celtico), è figlia del grande Nat King Cole, Natalie, a duettare con Van ed ancora una volta è ‘Magia’ pura, mentre “Get On With The Show” (da “What’s Wrong With This Picture” del 2003), in una divertente interpretazione a tempo di cha-cha-cha, vede l’artista in compagnia dell’amico di vecchia data Georgie Fame (è stato l’organista della band di Morrison dal 1989 al 1997 ma anche una figura di riferimento della ‘British Invasion’), e la loro rielaborazione di gran classe riesce ad elevare di tanto la qualità del brano. Per “Rough God Goes Riding” (da “The Healing Game” del 1997) Morrison invece duetta con la figlia Shana, che sovente prende parte come vocalist ai concerti del padre, “Fire In The Belly” (di nuovo da “The Healing Game”) vede salire al proscenio un altro vecchio amico di Van, Steve Winwood, mentre in “Born to Sing” (tratta dal più recente disco, “Born to Sing: No Plan B” del 2012), un’altra vecchia gloria british, con la forza riconosciuta del suo vocalismo, si affianca all’irlandese, ed è Chris Farlowe; i due cantanti offrono una versione appassionata e travolgente del pezzo che manderà in visibilio i fan di lungo corso sia dell’uno, il titolare, che dell’altro, il (quasi) dimenticato blues-singer. Tocca poi a Mark Knopfler dare il proprio contributo vocale e chitarristico ad una eccellente “Irish Heartbeat“, ballata tratta dal disco omonimo inciso dal grande bluesman irlandese con i Chieftains nel 1988, in “Real Real Gone” (da “Enlightenment” del 1990), un brano già di suo bello e trascinante, c’è Michael Bublè in un pregevolissimo duetto con Van. In chiusura un blues, “How Can a Poor Boy” (da “Keep it Simple” del 2008) che Morrison interpreta con il veterano Taj Mahal. “Duets”, un disco cui Morrison ha prestato come sempre cura assoluta in fase realizzativa, è stato inciso a Belfast e a Londra sotto la supervisione produttiva di Don Was e Bob Rock. Ogni brano è suonato in maniera splendida, un vero e proprio valore aggiunto alla bellezza intrinseca dei brani, gli arrangiamenti sono sofisticati e profumano di vecchia Irlanda e davvero conta poco che non ci siano cose nuove; per quelle attendiamo il prossimo appuntamento con Van Morrison.
(Luigi Lozzi) © RIPRODUZIONE RISERVATA
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