Cinema

DREAMWORKS COLLECTION: 10 Film in Blu-Ray

 

 

 

 

 

 

La pubblicazione di un cofanetto ad un prezzo invitante, e dalle spiccate caratteristiche per diventare un delizioso regalo natalizio, contenente dieci dei film che hanno fatto la storia della DreamWorks, ci consente di ripercorrere la storia della casa di produzione fondata da Steven Spielberg, Jeffrey Katzenberg e David Geffen che dal 1998 si è immediatamente imposta come la più credibile antagonista della sempiterna Walt Disney nel settore dell’animazione di largo consumo. Distribuisce Universal Pictures Home Entertainment.

 

 

 

 

 

Alla fine degli anni Ottanta l’animazione sembrava giunta al capolinea, a giudicare dal mediocre livello dei lungometraggi realizzati all’epoca dalla Disney, dopo oltre mezzo secolo di incontrastato dominio in un settore nel quale era l’unica società con le risorse artistiche e tecniche per sfornare prodotti animati di elevata qualità. Ma a rivitalizzarne i destini arrivarono i film del nuovo corso, da “La Sirenetta” a “Il Re Leone”, il cui clamoroso successo ne ha ripristinato l’egemonia ma ha anche scatenato gli appetiti e le strategie dei grandi Studios hollywoodiani, al punto da poter affermare che l’animazione non era più territorio di caccia esclusivo della Walt Disney, affiancata successivamente dall’altro grande fenomeno ‘animato’, la Pixar. E questo è stato un bene perché a quel punto tutti i grandi calibri, tra le Major hollywoodiane, sono al tempo scesi in campo per una “lotta senza quartiere all’ultimo disegno”: seppur nel solco di una generale omologazione senza fare rivoluzioni. Insomma una vera e propria ‘Toon War’! Agguerritissimi rivali che non si sono limitati a dividersi la stessa fetta di mercato ma che invece se ne sono aggiudicate altre. I primi tentativi di assalto alla Disney risalgono alla metà degli anni 80, quando la Universal fece uscire “Fievel” nel 1986 e “Alla ricerca della valle incantata” nel 1988. I due film furono un grande successo al botteghino e servirono a dare inizio ad una inversione di tendenza. Una insidia che ha obbligato la ‘casa del Topo’ a centuplicare i propri sforzi per mantenere la leadership dell’animazione con il risultato immediato di spingere verso l’alto la qualità generale dei prodotti. I primi a beneficiare di simile situazione sono stati gli spettatori nelle sale ed i fruitori dell’Home Entertainment che hanno potuto disporre di un più ampio e qualificato ventaglio di scelte per il proprio intrattenimento domestico. La grande realtà ormai accertata venne rappresentata dalla supremazia del digitale sulla tecnica classica. A muovere gli interessi delle major è stata la certezza dell’enorme fetta di mercato (comprensivo di merchandising & affini) che i cartoni animati trascinavano dietro di sé anche quando alcuni di questi prodotti venivano definiti (cinematograficamente) ‘fallimentari’ (ma la definizione è tale solo quando gli incassi non corrispondono ad aspettative già di per sé colossali!); un esempio per tutti “Il gobbo di Notre Dame” che, nonostante sia stato considerato un insuccesso ha avuto dalla sua un utile netto di 800 miliardi di lire dell’epoca tra tutte le voci che hanno concorso a determinarne gli introiti. Praticamente ogni Studio hollywoodiano si diede al cartoon. Il successo finanziario dei film animati ha fatto saltare così sul carrozzone del cartone animato anche la Fox, la Universal, la Paramount, la Mgm, la Warner e la giovane (ma anche la più agguerrita di tutte) DreamWorks. Disney rimaneva il modello principale d’ispirazione cui si sono rifatti (anche inconsciamente) i grandi maestri dell’epoca nella realizzazione di prodotti dell’animazione. Prova ne sia che gli stessi Don Bluth e Katzenberg – al tempo sulla cresta dell’onda – erano ex-Disney e la loro sfida diretta allo strapotere della ‘Casa del Topo’ venne dettata anche da personali motivazioni di rivalsa. La DreamWorks, la casa di produzione fondata nel 1994 da Steven Spielberg, Jeffrey Katzenberg (transfugo dalla rivale Disney e già artefice della sua rinascita) e David Geffen, ha da subito lanciato la sua sfida allo strapotere Disney, con le idee ben chiare sul da farsi e con uno schieramento di forze impressionante. Il primo passo è stato sul finire del 1998 “Il Principe d’Egitto“, primo film animato dello studio, ambizioso progetto diretto da Brenda Chapman, Steve Hickner e Simon Wells, anche se temporalmente nelle sale americane è uscito per primo “Antz“. Nessuno avrebbe mai pensato che lo scontro, personale e pubblico, risalente al 1994 fra Eisner, all’epoca presidente della Disney, e l’allora direttore della produzione cinematografica della casa, Jeffrey Katzenberg, che portò alle clamorose dimissioni di quest’ultimo, a una serie di cause legali e infine all’associazione di Katzenberg con un genio come Spielberg, si sarebbe trasformato in uno scontro fra due giganti cinematografici. Che a partire dal fatidico 1998 hanno iniziato a muoversi su strade parallele: come la Disney, anche la DreamWorks si è allargata a svariate aree nel campo dei media, con la produzione di film, non solo animati, programmi televisivi, software per giochi sul computer tipo “Director’s Chair” di Spielberg, e parchi gioco. Lo scontro si è esteso anche a livello di film per adulti, come dimostra la quasi contemporanea uscita nell’estate del 1998 di due film sullo stesso soggetto riguardante il disastroso (e possibile) impatto di un asteroide con la Terra, “Deep Impact” (DreamWorks) e “Armageddon” (Disney), che hanno entrambi avuto buoni incassi al botteghino (il primo ha incassato 140 milioni di dollari negli Usa e 338 nel mondo, l’altro ne ha incassati oltre 200 solamente nelle sale americane). Dopo simile antefatto la tenzone tra le due case di produzioni si è spostata sul mondo degli insetti e più precisamente su quello delle formiche. “Z la formica” (“Antz” il titolo originale) della DreamWorks ===Consulta la Filmografia=== contro “A Bug’s Life – Megaminimondo” della Walt Disney. Devono esserci stati in ballo enormi interessi se entrambe le case si sono occupate di questa materia: l’idea deve essere stata di una sola ma poi una sorta di spionaggio industriale deve aver suggerito all’altra di buttarsi anch’essa nell’impresa. Non è difficile immaginare che Katzenberg una volta scappato via dalla Disney fosse al corrente di un simile progetto ed abbia pensato che la miglior vendetta potesse essere quella di bruciare sul tempo i rivali. Ecco spiegata la ragione della rapida realizzazione ed uscita nelle sale di “Antz”. Una sfida che si è proposta soprattutto a livello tecnologico con l’adozione di grafica digitale ed effetti tridimensionali e che si è combattuta a colpi di pixel del computer: un tentativo radicale di modificare le abitudini grafiche dei cartoon consolidatesi in oltre mezzo secolo di attività. L’inizio delle sorprendenti innovazioni si era visto nel 1996 con “Toy Story“, un autentico turning-point per il genere, il primo film interamente realizzato con l’ausilio del computer; il regista di quel film, John Lasseter, è lo stesso di “Bug’s” ed è anche capo della Pixar Animation, responsabile in co-produzione con la Disney della realizzazione del film. I film concorrenti sono stati realizzati al computer da due studi specializzati di San Francisco: la Disney lavorava con la Pixar Animation, creata da Steve Jobs, la DreamWorks aveva il 40 per cento della Pdi (Pacific Data Images). Insomma, destini paralleli anche in questo. La scelta poteva sembrare un suicidio stilistico, ma si inseriva nella spietata guerra in atto. Negli Stati Uniti le formiche Dreamworks, pur sorrette da un cast vocale di ‘all star’ – Woody Allen era Z, Sharon Stone la principessa Bala, Gene Hackman il generale Mandibola e Sylvester Stallone il rude lavoratore grande amico di Z -, sono state quasi doppiate al botteghino dal film di Lasseter. “Z la formica” è un eroe incompreso (una sorta di Woody Allen del mondo degli insetti) che ha un solo amico, un formicone culturista, ed il sogno romantico di conquistare la principessa che una sera ha visto ballare in discoteca muovendosi come la Sharon Stone di “Basic Instinct”. La sequenza iniziale ce lo mostra sul lettino di uno psicoanalista, poiché Z-4195 (questo il suo nome completo) è una formica a disagio tra i suoi simili e confida al medico: «Mi sono sempre sentito a disagio in una grande città, non ho mai avuto attenzioni da parte di mia madre, mio padre è volato via quando ero solo una larva e non l’ho mai più visto… ci deve essere un posto migliore per me!». Il film può essere visto anche in chiave sociopolitica, e questo lo rende meglio appetibile ad un pubblico adulto. I critici hanno salutano il coraggio di un film animato che si è distaccato, per maturità e soggetto, dai tradizionali temi rivolti ai bambini dei film Disney, e che offre momenti di grande ilarità. Girato in due anni e costato circa 70 milioni di dollari, ed è riuscito comunque a togliere una grossa fetta di pubblico al più ambizioso (e più riuscito, aggiungiamo noi) “A Bug’s Life“, che ha richiesto quattro anni di lavoro e costi molto superiori. “Bug’s” è il trionfo della luminosità a ‘cielo aperto’ con tutte le possibili implicazioni e difficoltà realizzative che una simile scelta potesse implicare: le superfici irregolari che i piccoli insetti si trovano dinanzi, la plausibilità nelle scene di massa nelle ampie panoramiche, l’effettistica tridimensionale da dare contemporaneamente ad un numero più cospicuo di personaggi. Le ambientazioni sono di un realismo inimmaginabile in precedenza, gli insetti godono di movimenti che appaiono sorprendenti nella prospettiva dalla quale essi ‘vedono’ il mondo circostante. Tutto questo è il frutto di una professionalità che si è andata consolidando fin dal 1987 quando Disney e Pixar diedero inizio allo sviluppo del CAPS (Computer Animated Production Sytem), una tecnologia digitale di animazione che ha ancora ampi margini di miglioramento e che non finirà di stupirci. Alla Dreamworks invece i programmatori della Pdi hanno costruito il mondo delle formiche intorno a Zeta in un continuo gioco di citazioni e omaggi. La fretta di ultimare il film prima dei rivali della Disney li ha portati a scegliere le tenebre e l’oscurità come ambientazione dominante dell’intera pellicola, in modo da evitare che si notassero le deficienze tecniche dei fondali, mentre i personaggi non hanno nulla che possa intenerire i cuori; e questo a ribadire l’impostazione “adulta” del film. Diciamo che si è trattato di prove generali, un modo come un altro per aggiustare la mira e farsi sotto più pericolosamente alla successiva occasione. “Il Principe d’Egitto” è stato il migliore dei biglietti da visita che la DreamWorks potesse esibire per sancire il suo ingresso nel mondo dell’animazione. I numeri dell’ambizioso progetto furono sintomatici e dettano: 65 milioni di dollari di budget, 400 persone tra animatori, artisti e tecnici di 30 diversi paesi, impegnati per oltre 4 anni, le voci di attori come Michelle Pfeiffer, Ralph Fiennes, Danny Glover, impiegati per narrare la vita di Mosè attraverso la storia assai conosciuta (sui banchi di scuola o in precedenti film) de “I Dieci Comandamenti“. L’elemento innovativo che per primo salta in evidenza è stata l’intenzione, nemmeno tanto nascosta, di spostare più in avanti l’età media degli spettatori dei cartoon; in breve c’è stata la volontà di rivolgersi ad un pubblico più adulto senza trascurare quello tradizionale dell’infanzia. Vi si colgono citazioni, riferimenti, rimandi tematici, che fluttuano tra l’avventura ‘cinematografica’ alla Indiana Jones e il cinema epico alla David Lean. Il film, infatti, non è proprio indicato per i bambini a causa di scene di alta intensità drammatica, ma rema nella direzione di educare in modo nuovo il pubblico di ogni età. La struttura stessa del cartone, con il dualismo lacerante tra Mosè e Ramses, prima fratelli e compagni d’avventura, poi messi l’uno contro l’altro da un destino crudele, ha posto gli ideatori nella condizione di rinunciare alle tradizionali rappresentazioni dei cartoon, fatte di momenti comici, di canzoni da musical, di animali parlanti, per concentrarsi sul solo terreno narrativo. Una scelta coraggiosa, che fa perdonare alcune imprecisioni storiche, comunque sorprendenti in un film con le premesse sopra descritte. «L’animazione è una delle forme per raccontare una storia – ha dichiarato il produttore Katzenberg – e non necessariamente deve essere indirizzata ad un pubblico di bambini. Sogno di realizzare in futuro grandi film d’avventura come “Lawrence d’Arabia”». La Storia quindi come elemento portante della narrazione. Venne utilizzato il disegno tradizionale combinato con la computer-graphic a tre dimensioni che lasciò tutti a bocca aperta soprattutto in occasione della scena dell’apertura delle acque del Mar Rosso, di grande efficacia pittorica. Le nuove frontiere dell’animazione divennero le ambientazioni in 3D che enfatizzavano al meglio le scene di massa; e se ne son viste di superbe anche in “Anastasia”, “Il Re Leone”, “Il gobbo di Notre Dame”, “Mulan”. Lo stesso “Mulan”, uscito quasi contemporaneamente al film della DreamWorks, portava sullo schermo una favola tratta dalla secolare tradizione cinese. Una ragazza insofferente alle convenzioni che va a combattere con l’esercito imperiale travestendosi da uomo. Ed il film non ha deluso affatto sotto il profilo della resa spettacolare, riuscendo nell’intento di piacere ad ogni tipologia di pubblico. E’ evidente come anche la Disney sia andata adeguandosi ai dettami imposti dai rivali. In prima fila ovviamente un motivatissimo Katzenberg. «Ho voluto iniziare questa impresa con Spielberg e Geffen, per tornare a quello che è sempre stato il mio amore – egli dichiarò – Mi piacciono anche i film d’azione, ma l’animazione è stata sempre la mia più grande passione, una sfida continua a un mondo ancora tutto da scoprire. Io mi sento ancora come un pioniere che avanza in questa terra senza confini. Perché l’animazione è una tecnica per raccontare tante storie coi disegni, che siano fatti a mano o per computer non ha importanza. Walt Disney ha inventato la tecnica del racconto con l’animazione. Lui usava favole, e l’idea, la storia, era un disegno. Erano film fatti per bambini, ma a me piace l’idea che possiamo usare questa tecnica cinematografica per raccontare qualunque storia. Walt Disney aveva un’espressione favolosa che non ho mai dimenticato. Diceva: ‘se puoi fare un film con l’azione reale, perché perdere tempo a farlo con l’animazione? Se puoi ricreare qualcosa e fotografarla, non vale la pena passare quattro anni per concepire e disegnare la stessa cosa!’. A me sembra che il vecchio Disney avesse ragione. E non è un caso che non sarebbe bastato un miliardo di dollari per fare dal vivo quello che abbiamo fatto con l’animazione ne “Il Principe d’Egitto”: impossibile girare scene di un certo tipo, specie la spartizione del mar Rosso. E ci sono più effetti speciali in questo film di 90 minuti che in tutte le tre ore e mezza di “Titanic”». Jeffrey Katzenberg, detto “Mr. Animation”, veniva indicato come il Re Mida dell’animazione, egli favorì la rinascita dei cartoni animati a Hollywood, prima rivitalizzando (come detto) nel 1984 la Disney, proprio nel momento più critico della sua storia, poi dando vita al progetto DreamWorks. Al momento del suo insediamento aveva annunciato una programmazione di sette film da parte della divisione animata della DreamWorks entro il 2002, e tutto è andato secondo le previsioni, mentre Spielberg ha seguito più da vicino i film d’azione dello studio. Così racconta del suo approccio con il mondo dei cartoon: «Avevo visto qualche cartoon quando ero piccolo, ma non avevo mai approfondito la conoscenza dell’animazione, né ne avevo fatto materia dei miei studi. Quando arrivai alla Disney Michael Eisner mi mise repentinamente a capo della sezione dell’animazione gettandomi nello sconforto. All’epoca ho dovuto completare la produzione di “Taron e la pentola magica“, probabilmente il punto più basso dell’intera storia Disney. Non avevo scelto l’animazione, ero stato scelto da lei, ma ho potuto contare sulla enorme fortuna di poter imparare quest’arte proprio nel luogo dove erano nate le pellicole più celebri entrate nella storia del cartooning. Ho iniziato a ripercorrere i processi produttivi della Disney. Più capivo i meccanismi sottesi al suo approccio con il cinema d’animazione, e più mi rendevo conto di aver trovato la mia strada nell’industria cinematografica. Studiare il passato inevitabilmente mi spingeva a sperimentare ogni forma d’animazione, così abbiamo rilanciato l’animazione tradizionale, poi con Lasseter ci siamo spinti sul terreno della computer grafica e con Tim Burton su quelli della stop-motion, per animare i pupazzi di “Nightmare Before Christmas”. Quello che amo dell’animazione, oltre al fatto che è un lavoro di squadra, è che permette di rappresentare l’immaginazione allo stato puro: tutto quello che c’è sullo schermo va creato dal nulla, è il trionfo della creatività». Sotto la sua direzione infatti nacquero tutti i blockbuster di quell’ultima generazione, dalla “Sirenetta” al “Re Leone“. Poi Katzenberg, noto per una inesauribile capacità lavorativa, si è trasformato nel più pericoloso rivale dell’’Impero del Topo’. Dapprima l’esordio con il kolossal biblico “Il Principe d’Egitto“, poi le polemiche legate a “Z la Formica“, quindi il mezzo flop del pur piacevole “La strada per El Dorado“, a seguire i trionfi della plastilina animata di “Galline in fuga“, e poi, procedendo in avanti, l’irriverente parodia in computer grafica 3D di “Shrek” che ha soffiato il primo Oscar per un lungometraggio animato a “Monsters & Co.” dei rivali della Pixar/Walt Disney,Spirit” e “Simbad” a seguire. L’animazione DreamWorks ha saputo dimostrare grande duttilità ed è rapidamente assurta, nel giro di pochi anni (e di pochi film), ad un ruolo leader del mercato in diretta concorrenza con la Disney. Inoltre la DreamWorks apriva in sei diverse città degli Stati Uniti (con l’intento però di espandersi anche oltreoceano) i parchi gioco GameWorks, fitti di giochi elettronici per grandi e piccini che hanno avuto un notevole successo. Meno bene andarono le serie televisive, la più conosciuta delle quali è stata “Spin City” con Michael J. Fox. Su “Spirit” (“Stallion of the Cimarron”), diretto da Kelly Asbury e Lorna Cook, su una sceneggiatura di John Fusco va detto qualcosa. Lo sceneggiatore ne sintetizzava così la trama: «Tutte le storie sul West, conquistato o perduto, sono sempre state raccontate dal punto di vista dell’uomo. Ma uno dei protagonisti del mito del West è il cavallo. Ma nessuno finora, aveva mai scritto una storia narrata dal punto di vista del cavallo. L’idea ha stuzzicato la mia ispirazione, anche perché un film del genere poteva essere solo un cartoon». Spirit è uno splendido stallone che vive allo stato brado nei pascoli del West ma ha la sfortuna di essere catturato dai primi pionieri giunti nella terra promessa. «Abbiamo voluto fare un film sulla Storia del West – ha aggiunto – riproponendone i grandi scenari, la verità indomita, di chi realmente possedeva il suo West e ne veniva spodestato». Nasceva come un film d’animazione tradizionale, ma gli effetti speciali e l’animazione elettronica ‘invisibile’, che andarono ad arricchire il segno della pellicola, sono presenti in maniera tanto massiccia da giustificare la definizione data da Katzenberg di cinema ‘tradigitale’, con il quale la DreamWorks percorreva allora la strada della reinvenzione del linguaggio dell’arte dell’animazione, esplorando nuove frontiere espressive. Katzenberg così spiegava la fase di svolta dell’animazione in atto che non poteva prescindere comunque dal tratto della matita: «La computer grafica sta al disegno tradizionale come una e-mail a una lettera d’amore scritta a mano. L’emozione della carta, del segno, la stessa pressione data dalla mano del cartoonist sul foglio sono, al momento, irripetibili a livello tecnologico. Mentre eravamo impegnati con “Spirit” osservavo gli schizzi e i disegni di James Baxter, il responsabile dell’animazione del cavallo protagonista e pensavo che non esiste un computer capace di ottenere simili sfumature espressive. D’altra parte il computer è amico del disegnatore, si tratta solo di riuscire a sfruttarlo al meglio e credo che in sei o sette anni i computer saranno perfettamente in grado di ricreare l’effetto del segno manuale». Per “Spirit” uno dei principali punti di riferimento è stato “Balla coi lupi”, per il “Principe d’Egitto” era “Lawrence d’Arabia“, per “Galline in fuga” invece “La grande fuga“, per “Shrek” tutte le favole su cui siamo cresciuti e che amiamo. Si tratta di una storia ricca di buoni sentimenti scandita da immagini mozzafiato, sia per la qualità che per il realismo dei disegni, e che può contare su una efficace colonna sonora scritta a quattro mani da Bryan Adams e Hans Zimmer.Galline in fuga”, il film sui pennuti da cortile realizzati in plastilina, segnava invece prima collaborazione tra la Dreamworks e la società inglese di animazione Aardman, dietro la quale si nascondevano Nick Park e Peter Lord, i talenti che hanno creato “Wallace & Gromit” e “Creature Comforts”. L’azione si svolge in un pollaio che è visto come una sorta di campo di concentramento, gestito dalla gelida signora Tweedy, la quale applica rigidamente, senza intenerirsi, la regola che quando una delle internate non produce più la quantità richiesta di uova viene giustiziata… in pentola. Ispirandosi a “La grande fuga” (1963, con Steve McQueen) e a “Stalag 17” (1953, con William Holden) di Billy Wider, “Chicken Run” racconta la storia di un gruppo di galline, Sciocche e paurose, che tentano di fuggire dalla fattoria. Una notte, dal cielo piove nel pollaio Rocky (doppiato da Mel Gibson), bel galletto americano, sparato dal cannone del circo, che fa intravedere loro una speranza di salvezza se solo le insegnasse l’arte del volo per superare i reticolati. Il film è un geniale lavoro d’animazione, capace di intrattenere con piacevolezza sia il pubblico dei bambini che quello degli adulti (per via delle numerose citazioni cinefile), entrambi coinvolti nel trepidare e nel sorridere per le esilaranti ed avventurose disgrazie della compagnia di galline. Il tutto trattato con garbo pieno d’ironia ed una intelligente messa in scena cui non difetta di certo l’efficacia delle soluzioni visuali adottate. Il passo successivo fu “La strada per Eldorado” che ha deluso in pieno le aspettative degli appassionati ed ha in gran parte contraddetto il progetto avviato dalla DreamWorks di contrapporsi alla Disney realizzando cartoon ‘adulti’ ed evitando il tono da musical, gli animali antropomorfi ed i personaggi singolari introdotti quali ‘spalle’ dei protagonisti. Questo film, nonostante sia molto divertente, contiene proprio tutti quegli elementi che si volevano evitare aprioristicamente: numeri musicali usati come siparietti, la fanciulla emancipata e decisa (l’indiana Chelo) come in tutti i film di casa Disney dell’epoca, un cavallone goloso di mele, un armadillo che si trasforma in palla per far vincere una competizione agli eroi della storia; che sono Tullio e Miguel, due piccoli truffatori scanzonati capitati per sbaglio sul galeone di Cortès, un fanatico lugubre e pericoloso, e che dopo aver rubato una scialuppa, sbarcano nel Nuovo Mondo e scoprono la mitica El Dorado, la città dell’oro… Ci sono effetti speciali straordinari, con i quali i realizzatori hanno creato scenari e oggetti tridimensionali grazie all’exposure tool, che combinava digitale e animazione tradizionale (unico inconveniente è che, nel confronto, i personaggi bidimensionali sembrano ancora più piatti). Con “Shrek”, invece, sembrò proprio l’inizio di una nuova era del cartoon. Il film va considerato come un capolavoro assoluto, giustamente premiato con un Oscar istituito quanto mai tempestivamente nell’anno della sua uscita, il 2001. Con i mezzi tecnologici allora a sua disposizione la DreamWorks ha realizzato un affascinante lavoro destinato a diventare film di culto per molte generazioni di spettatori a seguire. Fu il frutto di cinque anni di lavoro e di un investimento di 100 milioni di dollari, ed ha rappresentato il primo concreto punto di arrivo della politica avviata nel 1994 da Katzemberg. Che i tempi fossero mutati verso un’animazione adulta lo confermò anche il fatto che il film, diretto dal neozelandese Andrew Adamson e dall’americana Vicky Jenson, sia stato il primo interamente girato in digitale ad essere stato presentato al Festival di Cannes in competizione ufficiale. Ricordiamo per amor di verità che “Peter Pan” nel 1953 era già stato in lizza a Cannes per la Palma d’Oro ma che quello appunto era ‘solo’ un cartoon. Una sceneggiatura pressoché perfetta, adattata da una novella di 28 pagine scritta oltre un decennio prima da William Steig, che prendeva le mosse dalla più classica delle storia, quella della ‘bella e la bestia’, per poi evolversi in qualcosa di assolutamente imprevedibile mescolando le fiabe più popolari – c’è la scena in cui la solitaria quiete domestica dell’orco viene improvvisamente messa in subbuglio dall’invasione dei protagonisti delle favole più famose; dai Sette Nani a Cappuccetto Rosso, da Pinocchio e tutti gli altri eroi dei bambini cacciati dal regno delle fiabe – con la contemporaneità e il citazionismo dotto. Laddove i modelli sono riconoscibilissimi a spiazzare lo spettatore è l’audacia della rilettura offerta. “Shrek” è stato un film studiato per piacere a tutti indistintamente ed ha segnato davvero la nuova frontiera dell’animazione, essendo, all’epoca della sua uscita, uno dei ‘figli’ meglio riusciti della tecnologia digitale. Vi si racconta la storia di Shrek, il verde orco, solitario ed irascibile, che viene inviato dal principe Lord Farquaad nel castello del drago sputafiamme a salvare la principessa Fiona, sua promessa sposa… Ad accompagnare Shrek è un asinello parlante e petulante, un vero spasso cui ha prestato la voce nella versione originale Eddie Murphy. Un pizzico di humor e un po’ di trasgressione, grande ironia nei testi, una colonna sonora di grande efficacia, sono gli altri elementi che caratterizzano il film. Nello staff che ha realizzato “Shrek” c’è anche un tocco italiano, Luca Prasso, allora 36enne supervisore tecnico ingaggiato dalla DreamWorks e da sei anni in forza alla Pdi di Paolo Alto, che così raccontava la sua esperienza: «All’inizio del film, nel ‘98, tutto sembrava complicato, ma lavorando con un team di geni tutto si risolve. Il nostro lavoro è tanto creativo quanto tecnico. Si parte da una scultura con le caratteristiche del personaggio, poi la statua viene digitalizzata, diventa viva, e quindi ci occupiamo dell’involucro dei personaggi digitali, facciamo operazioni lobotomiche, lavoriamo su ossa e muscoli prima dell’animazione. E con i registi discutiamo delle cose fattibili, e dei costi relativi a ogni singolo movimento. Se mi è consentita una metafora si può dire che la Dreamworks è il bambino cattivo che va a giocare nel parco dove prima c’era solo Disney. Non facciamo film nell’ottica del parcheggio per i bambini, guardiamo a un target diverso, che va dai sei ai quarant’anni ed oltre. Il successo americano di “Shrek” lo dimostra: chi è andato a vederlo con il figlio si è divertito e ha fatto il passaparola». Nel 2004, in concomitanza con l’uscita di “Shrek 2”, la DreamWorks Animation diventava uno studio indipendente rispetto alla DreamWorks SKG, ribadendo la sua forza con film quali “Shrek terzo” (2007), “Shrek e vissero felici e contenti” (2010) a completare una impareggiabile quadrilogia, le acclamate trilogie di “Madagascar” a partire dal 2005 (più lo spin-off “I pinguini di Madagascar” del 2015), di “Kung Fu Panda” (dal 2008), di “Dragon Trainer” (dal 2010) e tanti altri film di successo come “Shark Tale” (2004), “Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro” (2005), “La gang del bosco” (2006), “Giù per il tubo” (2006), “Bee Movie” (2007), “Mostri contro alieni” (2009), “Megamind” (2010), “Il Gatto con gli stivali” (2011), spin-off di “Shrek”, “Le 5 leggende” (2012), “I Croods” (2013), storia di una famiglia preistorica, un’insieme di trovate geniali e gag esilaranti, oltre ad un finale toccante che elevano quest’opera tra le più belle del cinema d’animazione, “Turbo” (2013), “Mr. Peabody e Sherman” (2014), “Home – A casa” (2015), “Trolls” (2016), “Baby Boss” (2017), “Capitan Mutanda – Il film” (2017), “Il piccolo yeti” (2019), “Trolls World Tour” (2020), “I Croods 2 – Una nuova era” (2020). Su “Dragon Trainer”, storia dei cacciatori di draghi di Berk, va sottolineato come sia un mix di avventura, azione e divertimento, ma che, come succede ai grandi capolavori, conquista il cuore degli spettatori nel finale, con sequenze toccanti e una morale sul pregiudizio e sulla fiducia in sé stessi da non sottovalutare. C’è stato – a dire il vero – un periodo in cui la DreamWorks ha perso qualcosa in termini di appeal e di presenza importante sul mercato cinematografico, dovuta ad una serie di passaggi societari che hanno generato incertezza. Infatti nel dicembre 2005 i fondatori della DreamWorks decisero di vendere lo studio alla Paramount Pictures e dall’acquisto è stata esclusa la DreamWorks Animation, che rimase indipendente e priva di una guida sicura, sotto la tutela della Touchstone Pictures del gruppo Walt Disney, rilanciandosi però alla grande quando nel 2016 è stata acquistata dalla Universal Picture che in questi anni ne sta alimentando una rinascita in grande stile.
TECNICA
Per chi volesse approfondire la conoscenza dell’universo DreamWorks il cofanetto “DreamWorks 10 Film Collection” – creato e distribuito dalla Universal Pictures e contenente dieci significativi film tra quelli realizzati dalla casa fondata dal trio composto da Steven Spielberg, Jeffrey Katzenberg e David Geffen nel 1994 – è l’ideale compendio. Un tripudio di grande intrattenimento d’animazione per bambini ed adulti, grandi emozioni, splendore del digitale. Il prodotto si presenta con un packaging in custodia multipla del tradizionale colore blu essenziale ma sufficientemente accattivante. All’interno i dieci blu-ray ognuno dei quali raffigurante il film cui si riferisce ed ognuno con una qualità tecnica più che soddisfacente. I titoli contenuti, tra classici e film di più recente produzione a partire dal 2001, sono: “Shrek” (2001, 90’) di Andrew Adamson e Vicky Jenson, “Madagascar” (2005, 86’) di Eric Darnell e Tom McGrath, “Kung Fu Panda” (2008, 92’) di Mark Osborne e John Stevenson, “Dragon Trainer” (2010, 98’) di Chris Sanders e Dean DeBlois, “I Croods” (2013, 99’) di Kirk De Micco e Chris Sanders, “Turbo” (2013, 95’) di David Soren, “Home – A casa” (2015, 90’) di Tim Johnson, “Trolls” (2016, 92’), di Mike Mitchell e Walt Dohrn, “Baby Boss” (2017, 97’) di Tom McGrath, “Il piccolo yeti” (2019, 97’) di Jill Culton e Todd Wilderman. La qualità tecnica è più che soddisfacente. Per quanto riguarda il video si parla di una qualità a 1080 HD Widescreen 2.40:1 oppure 1080p HD Widescreen 1.85:1. Per quanto riguarda il contesto Audio abbiamo le stesse tre tracce per ciascun film: Inglese DTS-HD Master Audio in 5.1, Italiano, Francese Digital Sourround in 5.1. Svariati Contenuti Speciali inseriti in ognuno dei dischi prevedono Corti Animati, Video Musicali, Attività Interattive, Curiosità Varie, Scene Tagliate e molto altro ancora.

 

(Luigi Lozzi)                                                   © RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

 


(immagini per cortese concessione della DreamWorks/Universal Pictures)

 

 

 

DREAMWORKS 10 FILM COLLECTION
DreamWorks Film Collection (10 Film)
Film inclusi:
Shrek (id.), 2001, Andrew Adamson e Vicky Jenson [90’]– Madagascar (id.), 2005, Eric Darnell e Tom McGrath [86’]– Kung Fu Panda (id.), 2008, Mark Osborne e John Stevenson [92’]– Dragon Trainer (How to Train Your Dragon), 2010, Chris Sanders e Dean DeBlois [98’]– I Croods (The Croods), 2013, Kirk De Micco e Chris Sanders [99’]– Turbo (id.), 2013, David Soren [95’]– Home – A casa (Home), 2015, Tim Johnson [90’]– Trolls (id.), 2016, Mike Mitchell e Walt Dohrn [92’]– Baby Boss (The Boss Baby), 2017, Tom McGrath [97’]– Il piccolo yeti (Abominable), 2019, Jill Culton e Todd Wilderman [97’]Distributore: DreamWorks/Universal Pictures Home Entertainment

 

 

 

 

 

I titoli consigliati da ALLTHATDIGITAL per la vostra videoteca