DI LEO CALIBRO 9 (EROTISMO E NOIR NEL CINEMA DI FERNANDO DI LEO) di Gordiano Lupi e Davide Magnisi
Un libro interessante, “Di Leo Calibro 9”, scritto a quattro mani da Gordiano Lupi e Davide Magnisi e pubblicato nel 2017, delinea la figura di Fernando Di Leo, regista trascurato dalla critica quando era nel pieno della sua attività, negli anni ’70, e rivalutato solo dopo la sua morte: al suo Cinema sono state riconosciute importanti connotazioni noir, le stesse che hanno fatto la fortuna di Quentin Tarantino.
L’amore per il cinema ‘minore’, per quei fenomeni che la critica ufficiale ha sempre guardato con sufficienza e insofferenza, è la molla che ha spinto Quentin Tarantino ad eleggere Fernando Di Leo, autore di noir anarchici ed imperfetti nei difficili anni ’70, come uno dei suoi maestri. Di Leo non è, badate bene, un Fellini, un Rossellini o un Visconti, ma il suo non è un Cinema fasullo né tantomeno approssimativo. Tra i Sessanta e i Settanta il nostro cinema è stato quanto mai produttivo nello sfornare una lunga sequela di peplum, western-spaghetti, film soft-erotici, commedie pecoreccie, thriller e polizieschi, che all’epoca della loro uscita furono oggetto di critiche feroci salvo poi essere ampiamente rivalutati in seguito. Di Leo è stato uno degli autori incompresi di allora sebbene all’estero fosse assai conosciuto ed i suoi film baciati da grande fortuna soprattutto in America. «Durante la mia adolescenza lavoravo come commesso in un video-store di Santa Monica ed è stata significativa per la mia professione una delle prime cassette che ho visto: “I padroni della città”. Non sapevo che il film fosse italiano e neanche avevo mai sentito il nome di Fernando Di Leo: ricordo soltanto che dopo quella visione rimasi totalmente folgorato. Di Leo aveva realizzato fra le strade di Roma una storia di gangster che avrebbe potuto benissimo essere stata girata da Don Siegel: c’era la stessa grinta nella regia, la stessa secchezza dei grandi noir americani. E Jack Palance, poi, era semplicemente grandioso nella parte dello sfregiato. Dopo “I padroni della città” ero ossessionato e sistematicamente mi sono messo a cercare e a vedere gli altri film che aveva diretto Di Leo. Il primo che mi capitò fu “La mala ordina” che, secondo me, nel genere poliziesco, rimane un vero e proprio capolavoro. Ricordo bene l’impatto che ebbe su di me questo piccolo macrò italiano, che veniva ingoiato dal giro grosso, e da New York gli mandavano contro la coppia di killer formata da Henry Silva e Woody Stroode. Ragazzi, credo proprio che Di Leo in quel film abbia dato il massimo di sé. C’è poi un inseguimento pazzesco fra il pappone e quello che gli ha ucciso la moglie e la figlia, che dura almeno un quarto d’ora e lui a un certo punto salta su un camioncino e spacca il parabrezza a testate! Sì, proprio con la testa, incredibile, semplicemente fantastico! Solo un grande regista poteva immaginarsi e girare una scena così lunga senza far mai calare la tensione un istante. Dopo beccai “Il boss”, che in America è stato distribuito come “Whipeout!”, un altro capolavoro pieno di amarezza e di crudeltà, interpretato ancora dal mitico Henry Silva, che fa un killer della mafia che massacra tutti per raggiungere la vetta del potere, e da Richard Conte. La cosa che mi piace nei personaggi di Di Leo è che sono dei delinquenti figli di puttana, ma mai tipizzati, fasulli. E inoltre c‘è sempre un’ironia di fondo, anche nelle cose più truci che vengono messe in scena, che rende i suoi film veramente unici. I miei debiti nei confronti di Fernando sono tanti, di passione e anche cinematografici». Questo ha scritto Quentin Tarantino nell’introduzione alla bella monografia sul regista approntata dalla rivista “Nocturno” nel settembre 2003. Tarantino, come avete potuto appurare attraverso le sue parole, ha più volte avuto parole di ammirazione per il poliziesco all’italiana, citando ne “Le iene” una scena di “Il boss” (Fernando Di Leo, 1972), omaggiando in “Pulp Fiction” il regista quando presenta una coppia di killer bianco-nero (Samuel L. Jackson e John Travolta) di evidente derivazione da quella formata da Woody Strode e Henry Silva, ed inserendo in “Jackie Brown” un frammento de “La belva col mitra” (Sergio Grieco, 1977). Così che Quentin ha accolto con entusiasmo, assieme ad un altro nome di prestigio del cinema americano, Joe Dante, l’invito di presiedere in veste di ‘padrino’ un omaggio a Di Leo che è stato organizzato al Lido di Venezia, durante la Mostra del Cinema nel settembre 2004. Qui sono stati presentati, restaurati e in digitale, tre titoli esemplari di Di Leo “I padroni della città”, “La mala ordina”, “Il boss”. Film da tempo immemore scomparsi dalla circolazione e che, insieme ad altri lavori ‘invisibili’ e ‘di genere’, la Biennale di Venezia, in comunione d’intenti con la Fondazione Prada, aveva deciso di recuperare (e sdoganare) in una rassegna denominata ‘Storia segreta del cinema italiano’. I due autori del libro, Gordiano Lupi e Davide Magnisi, sgombrano subito il campo da equivoci quando affermano: «Quentin Tarantino ha rivalutato molti artigiani del nostro cinema vituperati e distrutti dalla critica italiana e tra questi non poteva mancare Ferdinando Di Leo, regista simbolo del ‘Noir alla Scerbanenco’, di un Poliziottesco atipico e originale, di un erotismo malsano condito di violenza e perversione. Non serviva Tarantino per capire che Di Leo è un autore interessante e capace di rappresentare il male della società contemporanea descrivendone gli eccessi». Gordiano Lupi e Davide Magnisi, attraverso “Di Leo Calibro 9. Erotismo e noir nel cinema di Fernando di Leo”, evidenziano lo spessore cinematografico del regista, ripercorrendo per intero la sua opera, film dopo film, in modo esauriente ed approfondito. Nel saggio emerge quanto mai nitida la trasversalità di Di Leo, la sua abilità nella costruzione delle trame narrative e nella scelta delle inquadrature. Di Lupi conosciamo bene l’instancabile curiosità e la profonda conoscenza del cinema di genere italiano degli anni Settanta (dal Cinema Horror alla Commedia Sexy) di cui si occupa da molti anni, mentre il suo contraltare in questo saggio, Davide Magnisi, è docente di materie letterarie, autore di diversi libri, e collabora con riviste specializzate. Il libro è diviso in due parti: una storico-critica, curata da Gordiano, incentrata sul percorso filmico e fenomenologico del regista, in cui vengono tracciate le coordinate storiche, ed una contenente una serie di interviste fatte da Magnisi ad alcuni dei personaggi fondamentali per la produzione del regista – tra questi la moglie Rita di Leo, professore emerito presso l’Università La Sapienza di Roma, Mario Tronti, militante nel PCI e fondatore dei Quaderni rossi, lo sceneggiatore Vincenzo dell’Aquila, i registi Ruggero Deodato e Franco Giraldi, gli attori Lisa Gastoni, Barbara Bouchet, Gianni Garko ed altri oltre all’iconica Gloria Guida – in cui si ricostruisce il profilo di Fernando Di Leo con grande efficacia e profondità. Fernando Di Leo ===Consulta la Filmografia=== è morto a Roma nel dicembre 2003 all’età di 71 anni dimenticato da tutti – sebbene fosse un uomo molto colto – ma non dai suoi cultori. Era nato a San Ferdinando Di Puglia nel 1932 da una famiglia benestante. Basterebbero i suoi grandi noir degli anni 70, “Milano calibro 9”, “Il poliziotto è marcio”, “Il boss”, “Diamanti sporchi di sangue” a sancirne la grandezza. Forse i suoi film migliori non sono proprio dei capolavori, ma sono lavori che, pur nell’economia dei mezzi con cui sono stati girati, hanno una tale vitalità che oggi, a quasi una cinquantina d’anni dalla loro realizzazione, possono ancora proporsi significativamente per una riscrittura illuminata della storia del nostro cinema. Il riferimento cinematografico più palese è senz’altro Melville, il suo regista preferito, e il Don Diegel non ancora assurto al rango di grande del cinema. È una personalità di eccellente cultura quando, nei primi anni ’60, si distingue, assieme ad altri talentuosi autori (Franco Giraldi, Duccio Tessari, Tonino Valerii), nella stesura dei primi copioni di western all’italiana; collabora attivamente alla sceneggiatura dei primi due film di Sergio Leone, “Per un pugno di dollari” e “Per qualche dollaro in più” anche se non appare nei crediti, e firma pure “Il ritorno di Ringo” di Duccio Tessari e “I lunghi giorni della violenza” di Florestano Vancini, entrambi con Giuliano Gemma ed in entrambi anche in veste di assistente alla regia. I titoli di testa originali del primo dei due film della ‘Trilogia del Dollaro’ non accreditano la sceneggiatura, attribuita allo stesso Leone e a Duccio Tessari. Ma come si evince dalla lettura della “Avventurosa storia del cinema italiano”, curata da Franca Faldini e Goffredo Fofi, di Leo dichiarava: «I primi due film di Leone li abbiamo scritti io e Tessari, né lui né Vincenzoni […] Poi si fece il secondo, “Per qualche dollaro in più”, scritto quasi interamente da me, ma il mio nome non figurava in cartellone, ero un intellettuale di sinistra, quindi…». Quando passa dietro la macchina da presa alla fine degli anni 60, negli anni del ‘vento nuovo della contestazione’, Di Leo è uno sceneggiatore apprezzato ma che sceglie invece di cimentarsi in generi completamente diversi. A parte qualche caduta di stile fragorosa (“Rose rosse per il Fuhrer”, 1968) i suoi lavori sono tutti di grande rilievo e legati alla realtà del tempo; “Brucia ragazzo, brucia”, che va incontro a grossi problemi di censura, e “I ragazzi del massacro”, primo noir e suo primo incontro con i romanzi di Scerbanenco. Un gruppo di studenti uccide la propria insegnante e un ispettore di polizia riuscirà a risolvere il caso solo conquistando la fiducia di uno dei carnefici. “La bestia uccide a sangue freddo” del 1971, thriller orrorifico con Klaus Kinski (caratterizzato da quella tipica espressione paranoica), Rosalba Neri e Margareth Lee, è un tentativo di porsi nella scia del fenomeno Dario Argento, ma non è tra i più riusciti. Kinski è il direttore di una clinica per donne disturbate di mente che vengono assassinate da un misterioso serial killer. Ma “Milano Calibro 9”, in cui durezza e pessimismo s’intrecciano in una cruda storia di malaffare, è nel 1972 già un piccolo gioiello e capostipite assoluto del genere Poliziesco all’Italiana che tanta fortuna incontrerà negli anni a seguire, anche grazie al contributo di altri valenti autori. Girato nel 1971 (ma uscito, come detto, solo l’anno dopo), è il primo capitolo della celebre ‘Trilogia del Milieu’ (che Gordiano Lupi nel libro chiama “Trilogia della Mala”), proseguita con “La mala ordina” e conclusa da “Il boss”, nel corso della quale Fernando di Leo esplora i vari aspetti del mondo della criminalità organizzata. Si parla della mala, quella vera – e non quella che esce edulcorata e levigata dai film d’autore – fatta di piccole figure marginali, ma straordinariamente affascinanti, in ambientazioni quanto mai realistiche. Il film ha preso il titolo da un racconto, contenuto nella raccolta “I Centodelitti”, dello scrittore ucraino (ma milanese di adozione) Giorgio Scerbanenco, ma nonostante l’evidenza della fonte d’ispirazione, e la fedeltà allo spirito ed alla poetica dello scrittore, si può dire che sostanzialmente il regista pugliese abbia costruito il suo film in assoluta autonomia, utilizzando la categoria del Noir per un personale discorso sociologico e antropologico sull’universo delinquenziale. Protagonista di “Milano Calibro 9” è un eccellente Gastone Moschin nella parte di un bandito uscito di prigione, e tenuto sotto controllo sia da altri malavitosi, convinti che l’uomo si sia fregato trecentomila dollari prima di essere arrestato, che dalla polizia. Affiancato dalla splendida Barbara Bouchet, eroina del cinema soft-erotico di genere, da Lionel Stander – che va ad inaugurare la galleria dei grandi interpreti hollywoodiani adottati da di Leo nei propri noir -, ma soprattutto da un Mario Adorf memorabile nella caratterizzazione del violento e sardonico Rocco Musco. Di rilievo, poi, la colonna sonora, composta da Luis Bacalov ed eseguita dagli Osanna, che commenta magnificamente l’alternarsi di crudeltà e lirismo alla base di quello che giustamente si considera il suo capolavoro. Il successivo “La mala ordina” è un poliziesco magnifico, amaro e furioso, crepuscolare e ricco di tensione, in cui un delinquente milanese di mezza tacca, Luca Canali, finisce, senza colpa, nella ragnatela di un regolamento di conti tra i pezzi grossi dell’Organizzazione e si vede costretto a lottare contro due killer newyorchesi spediti in Italia per liquidarlo. Per il ruolo del protagonista la scelta è caduta su Mario Adorf, che già nel precedente film si era messo in luce con la caratterizzazione di un gangster violento e smargiasso, ma che in questo caso si supera e regala al suo personaggio una incredibile progressione da vittima sbigottita degli eventi – è un magnaccia cui hanno ucciso moglie e figlia – a spietato giustiziere mosso dal motore della disperazione. Un ruolo sanguigno ed indimenticabile, di quelli che avrebbero fatto, o farebbero ancor oggi, la gioia di qualsiasi buon regista di action-movie. Di culto è la sequenza, ricordata anche da Tarantino, in cui Adorf abbatte il vetro di un furgone a testate dopo un inseguimento. “Il Boss” dei tre è certamente il film più nero, cupo, violento e nichilista ed è calato in una Palermo mafiosa che in tanti ci hanno raccontato ma mai con questi toni, con tale concretezza, che accostano la delinquenza organizzata siciliana a quella del gangsterismo americano – infatti è tratto dalla crime-story “Il mafioso” di Peter McCurtin ambientato a New York – ma aggiungendovi però riferimenti più che espliciti alle connivenze con il potere politico. Tant’è che un Ministro democristiano dell’epoca, riconoscendosi in una delle persone additate nel plot, fa di tutto per impedire alla pellicola di circolare liberamente. Protagonista è Henry Silva, un attore americano che in Italia, e grazie principalmente a Di Leo, che lo richiamerà nel 1985 per “Killer vs Killers” – un tentativo di rifare “Giungla d’asfalto” di John Huston -, è riuscito a trovare una propria dimensione d’interprete. Il sicario silenzioso e gelido, ha nome Sterling, chiaro omaggio a Sterling Hayden, protagonista del classico del regista de “Il mistero del falco”. Seguono lavori più o meno riusciti tra nuovi poliziotteschi (“Il poliziotto è marcio” del 1974, “Città sconvolta” del 1975, “Diamanti sporchi di sangue” del 1978), commedie d’azione (“Colpo in Canna”, 1974, con una sexy Ursula Andress), “Gli amici di Nick Hezard” (1976) – una sorta di “La stangata” di casa nostra con un ladruncolo impegnato a vendicarsi di un crudele boss cercando di farlo abboccare ad una complicata truffa – e drammi a sfondo sessuale quali “La seduzione”, del 1973, dal romanzo “Graziella” di Ercole Patti, con Lisa Gastoni, Maurice Ronet e Jenny Tamburri. La protagonista del film è Lisa Gastoni, un’attrice che ha attraversato una fetta importante del nostro cinema degli anni ’60 e ’70 e che ancora nel pieno della sua bellezza (è nata nel 1935) aveva abbandonato la carriera nel 1978, per poi essere riportata alla ribalta del grande schermo da Ferzan Ozpatek, grazie a “Cuore sacro” nel 2005. Nel 1968 la Gastoni era stata la protagonista del morboso “Grazie zia”, il film culto di Salvatore Samperi che l’aveva lanciata come icona di un filone erotico dalle venature intellettuali che a lungo l’ha vista primeggiare. “La seduzione” ci riporta in quella Sicilia torbida e sessuofoba che lo stesso Samperi nel ‘73 aveva egregiamente illustrato (e trasformato in filone) con “Malizia”. Giuseppe torna a Catania e riconquista una sua antica fiamma; ma poi viene irretito dalla figlia poco più che adolescente… Tra gli altri lavori di Fernando il migliore è “I padroni della città” del 1976, nuova incursione nella malavita (questa volta romana), in cui svettano le presenze (non da protagonisti) di uno sghignazzante Jack Palance e di un grande attore e caratterista come Vittorio Caprioli. Ma alla fine dei Settanta molte cose cambiano nel panorama del cinema nazionale; la televisione comincia a farla da padrone e Di Leo non riesce più a ritagliarsi un suo spazio. L’ultimo exploit è “Avere vent’anni” del 1978 con la coppia Lilli Carati-Gloria Guida, film a metà strada tra la commedia erotica e il dramma senza speranza. Negli anni ‘80 solo tre film, nemmeno troppo riusciti: “Vacanze per un massacro” (1980), “Razza violenta” (1984) e “Killer contro Killers” (1985).
(Luigi Lozzi) © RIPRODUZIONE RISERVATA
Titolo: Di Leo Calibro 9. Erotismo e noir nel cinema di Fernando di Leo.
Autore: Gordiano Lupi, Davide Magnisi
Editore: Ass. Culturale Il Foglio
Collana: La cineteca di Caino
ISBN: 9788876066283
Pagine: 328
Anno di pubblicazione: 2017
Prezzo copertina: 15,00 €