Vinile

BOB DYLAN di Bob Dylan in Vinile

 

 

 

ARTISTA: BOB DYLAN
TITOLO: Bob Dylan
ETICHETTA: Columbia/Legacy/Sony Music
ANNO: 1962

 

 

Siamo più vicini a ‘celebrare’ i Sessant’anni che non a ‘ricordare’ i Cinquanta trascorsi dalla pubblicazione del primo, importante e innovativo, e seminale, album di Bob Dylan inciso nel 1962 per la storica etichetta Columbia Records: e torna ora sul mercato la ristampa in Vinile di “Bob Dylan” da parte della Sony.

 

Quella iconica copertina con il volto giovanile ma lo sguardo profondo di Dylan, avvolto nel suo giaccone imbottito color crema e il bavero alzato, la maglietta gialla girocollo, un cappellino in testa e la chitarra stretta tra le mani come un trofeo, fa ancor di più apprezzare il valore intrinseco delle ristampe in vinile dei classici americani dei Sessanta, Settanta e Ottanta curati dalla Sony Music, attraverso la sussidiaria Legacy, al ‘grido’ di lancio di ‘We Are Vinyl’. Il Vinile da qualche tempo non solo ha riconquistato i cuori di coloro che in quegli anni ne hanno fatto oggetto di culto della propria passione musicale, ma va allargando la schiera di adepti delle nuove generazioni di giovani desiderosi di recuperare (quasi sempre dietro suggerimento dei padri o di lungimiranti figure di riferimento) una fruizione della Musica di una volta, nel rispetto dei crismi di un passato forse lontano ma per nulla banale. Per la prima volta Dylan (nato il 24 maggio 1941 a Duluth, una cittadina del profondo nord americano, nel Minnesota) si era presentato ad una platea del Greenwich Village, a New York, mingherlino e sconosciuto folksinger, dal volto imberbe, imbracciando la chitarra e proponendosi con un repertorio di brani che avrebbero fatto epoca. Non era nemmeno ventenne e il suo nome rispondeva ancora a Robert Zimmerman: prenderà il nome d’arte mutuandolo dal nome del poeta Dylan Thomas. Era l’11 Aprile 1961, il piccolo locale era il Gerde’s Folk City e a scoprilo fu John Hammond. Va detto che Hammond, padre del musicista John Hammond jr., è stato un importante ‘talent scout’ per conto della Columbia Records, aveva fama di conoscere la musica ed ha scoperto e lanciato innumerevoli artisti nel rock, nel jazz, nel blues e nel soul (Bruce Springsteen, Aretha Franklin, Leonard Cohen, Mike Bloomfield, Billie Holiday, Stevie Ray Vaughan, Pete Seeger tra gli altri). Così ne ha delineato la figura lo storico Eric Hobsbawm: «Il ruolo di Hammond come scopritore e rilevatore di talenti dal 1933 alla sua morte non aveva uguali. Si basava non solo sulla sua sbalorditiva capacità di giudizio e sulla conoscenza della materia, ma anche sulla sua capacità di mobilitare le tre fondamentali componenti del successo di New York e di conseguenza della nazione: amicizie personali, un pubblico metropolitano orgoglioso della combinazione di liberalismo e snobismo dei newyorkesi e una comunità dello spettacolo decisa a sfruttare questo mercato». Il primo omonimo disco di Bob Dylan viene pubblicato il 19 marzo 1962 anche se in effetti sarà solo nel 1963, con l’uscita del secondo album, “The Freewheelin’ Bob Dylan” (e l’incisione della canzone di protesta per eccellenza, “Blowin’ In The Wind”), che il ‘menestrello di Duluth’ (è questo l’appellativo che gli deriva dal luogo di nascita nel Minnesota) andrà incontro alla notorietà, ma quel primo disco riveste ancora oggi un fascino seminale tutto suo, il segno tangibile di un mutamento irreversibile nei gusti di chi la musica l’ascolta ed un ‘turning point’ nella storia della musica contemporanea per l’influenza che avrà sui destini del Rock, assecondato pure dalla quasi contemporanea affermazione dei Beatles e dei Rolling Stones. Infatti, il passo più importante compiuto da Dylan – ed universalmente riconosciutogli dalla critica – è di aver elevato la Folk Music (condita di evidenti connotazioni Blues) da un ambito prettamente localizzato ad un contesto internazionale per il tramite del rivoluzionario passaggio (non accettato dai ‘puristi’, anzi fortemente criticato) da ‘acustico’ ad ‘elettrico’, che porterà la sua musica a gettare le basi della definizione futura di Folk-Rock. Tutto ciò avviene più avanti ma ha un senso puntualizzarlo in questo momento del nostro racconto. La stella polare di Bob Dylan è Woody Guthrie che egli – una volta giunto nella grande metropoli, a New York, agli inizi dei Sessanta – va a conoscere, già malato da tempo, prima che morisse (il 3 ottobre 1967, dopo essere entrato in ospedale nel 1956, senza più uscirne, colpito da una grave malattia ereditaria, il morbo di Huntington). La natura politica del Folk era tale anche in precedenza, Dylan ha il merito di universalizzarne le tematiche e le istanze di contestazione negli anni caldi del dissenso giovanile, attraverso i suoi riconoscibili, veementi e declamatori ‘talking blues’, cantati con voce ‘cattiva’, nasale e (apparentemente) sgradevole. Fa breccia nel cuore e nella mente di una generazione di giovani alienati ed arrabbiati. Oltre a ciò la sua musica e i suoi testi sono pervasi di una profonda componente religiosa che guiderà la stella di questo ragazzo ebreo illuminato (e cresciuto nel cuore rurale del Midwest degli Stati Uniti) per tutta la carriera, compresa la strabiliante conversione religiosa degli anni ’80. I suoi testi profondi e visionari sono l’ulteriore fiore all’occhiello della sua poetica e del suo talento, degni della miglior letteratura in versi della grande America. Paradossalmente il Blues – cantato in maniera così particolare da Dylan e tanto differente dal modo caldo delle interpretazioni dei neri – che trasuda dalle sue canzoni è la migliore espressione dell’angoscia, dell’umore e della disperazione esistenziale della sua generazione. Elementi che conferiscono all’artista il carisma che gli permette di porsi quale esponente della controcultura americana, leader della protesta pacifista di quegli anni e gli donano l’allure ancora più significativa di profeta generazionale. Nel suo carnet Dylan ha inanellato fino ad oggi 35 album in studio, 14 dischi live e 16 raccolte e venduto milioni e milioni di dischi mentre continua ad esibirsi dal vivo, a incidere album, e a rappresentare pur sempre un punto di riferimento e di ispirazione ineludibile per generazioni di seguaci – un ‘Mito’, forse l’unico nella storia del Rock -, alla veneranda età di 77 anni. Un ruolo fondamentale nell’affermazione della prima ora la riveste Joan Baez, sua coetanea ma interprete folk già affermata nel circuito (il debutto discografico avvenuto nel 1960) che allaccia con lui una collaborazione artistica, lo incoraggia, lo invita spesso a salire sul palco al suo fianco per interpretare insieme qualche pezzo, ne incide alcune composizioni, ed intreccia pure con Bob una ‘liason’ amorosa (che va avanti dal ’62 al ‘65). Dopo aver sottoscritto – grazie a John Hammond – un contratto con la Columbia Records, nel novembre del ‘61 in tre soli giorni registra il suo primo album. Una volta terminate le sedute di registrazione Dylan confidava ad alcuni amici: «Avevo dentro una violenta, rabbiosa emozione. Suonavo la chitarra e l’armonica e cantavo le canzoni e basta. Mr. Hammond mi chiese se volevo ripetere qualcosa e io dissi di no. Non mi ci vedo a cantare due volte di seguito la stessa canzone: è una cosa inconcepibile». Nella magnifica biografia – una delle prime e più importati tra quelle dedicate a Bob Dylan – scritta da Anthony Scaduto nel 1971 (ed all’epoca pubblicata dalla Arcana), faceva bella mostra una prefazione dell’allora (appena) ventenne Riccardo Bertoncelli, uno dei maestri indiscussi del giornalismo musicale del nostro paese. In fondo all’articolo riportiamo questa prefazione in forma integrale e se il libro di Scaduto non è più disponibile nelle librerie, il contributo di Bertoncelli trova oggi posto tra gli scritti dedicati a Dylan nel suo libro “Una vita con Bob Dylan” (Giunti). L’album “Bob Dylan” non è certo un capolavoro – se paragonato ai dischi che lo seguiranno nello stretto scorrere di pochissimi anni: “The Freewheelin’ Bob Dylan” (1963), “The Times They Are A-Changin’” (1964), “Another Side Of Bob Dylan” (1964), “Bringing It All Back Home” (1965), “Highway 61 Revisited” (1965), “Blonde On Blonde” (1966), “John Wesley Harding” (1967) -, contiene solo due brani composti dal giovane folk singer (“Song To Woody” e “Talkin’ New York”), mentre per il resto è una raccolta di classici folk e blues e vi compaiono cover di canzoni altrui che già da tempo faceva nelle sue esibizioni al Village, di artisti che avevano pubblicato lavori con la Columbia, interpretate non in maniera convenzionale ma con una irruenza ed una forza che mettono subito in evidenza la personalità di Bob, lo rendono immediatamente diverso da tutti gli altri. E ricordiamo tra l’altro che Dylan nei mesi in cui cercava di farsi conoscere si era esibito in serate dove John Lee Hooker lo precedeva in cartellone come protagonista principale. “Suonavo le canzoni folk con un atteggiamento rock ‘n’ roll”, dirà nella sua “Biograph”. Suona la chitarra con tocchi decisi e vigorosi, accompagnandosi all’armonica, ma è la voce a fare la differenza. “Freight Train Blues” è cantata in falsetto con grande virtuosismo mentre “In My Time Of Dyin’”, un traditional arrangiato da Bob che poggia sugli intrecci contorti della chitarra, e “Baby Let Me Follow You Down” (la riprenderanno più avanti gli Animals) del Reverendo Gary Davis sono le cose migliori assieme alla versione offerta da Dylan del gospel “The House Of The Rising Sun”, non ancora trasformato nel solido rock-blues che tutti conosciamo nell’interpretazione dei già citati Animals nel 1964. A proposito di questo brano nelle ‘storica’ biografia Anthony Scaduto riportava i dettagli di un ‘alterco’ avvenuto tra Dave Van Ronk e Bob: “Dave Van Ronk: «Fra noi ci fu uno scontro terribile per via della “The House Of The Rising Sun”. Da quella spugna che era sempre stato, assorbiva qualsiasi cosa gli capitasse a tiro, si era impadronito del mio arrangiamento. Prima di entrare in studio mi chiese: ‘Senti Dave, ti dispiacerebbe se incido la tua versione di “Rising Sun”? e io ‘Bè, Bobby, visto che fra poco vado anch’io in studio vorrei inciderla io’. Dopo un po’ me lo richiese di nuovo ed io ancora una volta gli dissi che volevo farla io, e allora lui: ‘Accidenti l’ho già incisa e non c’è più niente da fare perché la Columbia la vuole’. Non ci parlammo più per quasi due mesi. Non mi chiese mai scusa, questo debbo riconoscerglielo». Vale la pena a questo punto fare un breve cenno al film del 2013 dei fratelli Joel e Ethan Coen, “A proposito di Davis”, una storia sì, ‘sfumata’ ma, per riferimenti e personaggi narrati, fortemente legata all’universo che stiamo raccontando: in primis Dave Van Ronk e sullo sfondo – emozionante l’accenno per i dylaniani di lungo corso – Bob Dylan. Van Ronk, cantautore attivo nei circuiti del Greenwich Village degli anni ’60, pur non essendo mai assurto alle glorie cui è andato incontro l’amico Bob Dylan, viene considerato uno dei pionieri della rivoluzione folk ‘a stelle e strisce’ che ha portato ai grandi cambiamenti degli inizi degli anni Sessanta. Così, prendendo spunto dal libro, “A proposito di Davis” (il cui titolo originale rimanda proprio ad un album di Van Ronk, “Inside Dave Van Ronk”) il film si trasforma in un’opera tra le più delicate, emozionanti e personali della coppia di autori tuttofare Joel & Ethan Coen, nella quale viene messa in scena – con toni sfumati e contorni mai del tutto delineati – quella realtà culturale, l’humus politico e musicale del Greenwich Village nel periodo del cosiddetto ‘folk revival’ che riguardava anzitutto il folk urbano e non quello suonato nelle campagne. È un affresco della scena folk newyorchese, del conflitto tra arte e industria discografica, dei rapporti tra musica e società in America giusto un momento prima dell’avvento benefico di Bob Dylan; infatti, in chiusura del film, riconosciamo il profilo dell’allora sconosciuto menestrello proveniente da Duluth, Minnesota, che in un locale inizia la sua inarrivabile avventura artistica. Si tratta di una storia di finzione ma tutto viene narrato con grande aderenza alla realtà e sono molteplici i rimandi ai personaggi dell’intellighenzia e alle situazioni del tempo, seppur indicati con nomi di fantasia. Ad esempio quando in un locale si esibisce il trio di Jim, Jean & Troy, con due chitarre ed una vocalist femminile non si può non pensare a Peter, Paul & Mary. Il protagonista è Llewyn Davis, un aspirante folksinger, personaggio kafkiano come i numerosi che hanno popolato l’universo filmico dei Coen. Un film che qualsiasi appassionato della musica di Dylan non deve perdersi. C’è anche modo di riflettere su un mondo ormai scomparso, quello del folk dei Sessanta. Tornando all’album d’esordio di Dylan – che la Sony Music pubblica nella versione stereofonica mentre le prime copie stampate erano Mono, numero catalogo CL-1779 – il brano d’apertura, “You’re No Good”, dal fraseggio vocale forsennato, è una composizione di Jesse Fuller, “See That My Grave Is Kept Clean” di Blind Lemon Jefferson e “Fixin’ to Die” di Bukka White, pezzo che conserva il grove ritmico dell’originale, “Man of Constant Sorrow”, “Pretty Peggy-O”, “Gospel Plow” altri traditional fatti suoi da Dylan. “Non c’era niente di allegro nelle canzoni folk che cantavo – sottolinea ancora nella sua biografia –; non cercavano di piacere a tutti i costi e non trasudavano dolcezza. Allontanavo la gente o la costringevo a venirmi più vicino per capire di che cosa si trattava“. I due unici brani scritti di suo pugno sono “Talkin’ New York“, cantato da Dylan nella forma a lui familiare del ‘Talking Blues’ a raccontare del Greenwich Village, e “Song To Woody” omaggio al suo maestro dichiarato che Bob ha conosciuto ricoverato in un ospedale della ‘Grande Mela’ e che modella proprio sulle note di “1913 Massacre” scritta da Woody Guthrie, maneggiando nel testo la nostalgia per un passato arcaico mediato dall’occhio fervente ed innocente del discepolo: “Hey hey Woody Guthrie I wrote you a song / About a funny old world that’s coming along / Seems sick and it’s hungry, it’s tired and it’s torn / It looks like it’s dying and it’s hardly been born” (“Ehi Woody Guthrie ti ho scritto una canzone / su un vecchio buffo mondo che ci sta davanti / sembra malato ed è affamato è stanco e lacerato / sembra che stia per morire ed è appena nato”). C’è un verso illuminante in questa canzone (“That come with the dust and are gone with the wind”) che omaggia con devozione le polverose ballate di Woody ed anticipa il nuovo corso del Folk che vedrà Dylan protagonista. Il disco esce nel marzo del 1962 (il 19 per l’esattezza), due mesi prima che Bob compisse 21 anni, e in verità vende pochissimo, e quel velo di diffidenza che comincia a serpeggiare tra le alte sfere della Columbia Records durerà pochissimo, il tempo di realizzare un nuovo disco ed immetterlo sul mercato. Parliamo ovviamente di “The Freewheelin’ Bob Dylan”. Le cronache raccontano come “Bob Dylan” sia stato inciso in soli 3 giorni, dal 22 al 25 novembre 1961 e che sia costato appena 402 dollari, secondo quanto affermato da Hammond. Nel primo anno ne venivano vendute appena cinquemila copie che bastarono a mandare in pari la Columbia delle spese, ma alla fine del 1970 ne saranno state vendute oltre 200mila copie. Ha scritto Riccardo Bertoncelli nel libro “Una vita con Bob Dylan” (Giunti, 176 pag., 13,00 €): “La musica è l’unica arte in sintonia con ciò che accade […] Le canzoni di Dylan non sono mai uguali a se stesse. Come creature vive nascono, si sviluppano, cambiano, lasciando emergere i contenitori archetipici da cui sono, più o meno consapevolmente, abitate”.

 

(Luigi Lozzi)                                                © RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

 

(immagini per cortese concessione di Legacy/Sony Music)

 

 

 

Bob Dylan – Bob Dylan – CS-7589 [34:14]Tracklist (LP): 
Side One
1. She’s No Good – 1:40 (Jesse Fuller)
2. Talkin’ New York – 3:20 (Bob Dylan)
3. In My Time of Dyin’ – 2:40 (trad. arr. Dylan)
4. Man of Constant Sorrow – 3:10 (trad. arr. Dylan)
5. Fixin’ to Die Blues – 2:22 (Bukka White)
6. Pretty Peggy-O – 3:23 (trad. arr. Dylan)
7. Highway 51 Blues – 2:52 – (Curtis Jones)
Side Two
1. Gospel Plow – 1:47 (trad. arr. Dylan)
2. Baby, Let Me Follow You Down – 2:37 (Reverendo Gary Davis, Eric Von Schmidt, Dave Van Ronk)
3. House of the Risin’ Sun – 5:20 (trad. arr. Van Ronk)
4. Freight Train Blues – 2:18 (trad. arr. Dylan)
5. Song to Woody – 2:42 (Bob Dylan)
6. See That My Grave Is Kept Clean – 2:43 (Blind Lemon Jefferson)

 

Produttore John Hammond
Registrazione: 20 novembre 1961 / 22 novembre 1961

 

 

  

Prefazione di Riccardo Bertoncelli al libro “Bob Dylan – La Biografia” di Anthony Scaduto, contenuta anche in Una vita con Bob Dylan” (Giunti) di Riccardo Bertoncelli:
«Quando nel marzo del 1962 uscì per la Columbia il primo LP di Bob Dylan, ben pochi videro in quel ragazzotto provinciale e grassoccio l’uomo nuovo, il profeta, venuto a svegliare Miss Amerika da un torpore secolare. Eppure la persona decisiva sarebbe stata proprio lui. Bobby del Greenwich Village, la chitarra intima ed essenziale e il cappellaccio di traverso, proprio lui con il codazzo di sentimenti e di contraddizioni, gli enigmi sfolgoranti di una mente come poche. Ogni epoca ha i suoi protagonisti, e Dylan lo è stato per la nostra: in assoluto, senza paragoni. Una spanna sopra le comete che hanno sfiorato e illuminato i cieli dei nostri giorni: irraggiungibile nella sua complessità. Lui era Dylan: e gli altri erano i comprimari. Nelle sue spirali una generazione intera vedeva il coraggioso, il predicatore, il folle, l’assassino del tempo andato: lo stregone. In lui si riconoscevano in tanti, sull’ondeggiare piano della sua chitarra scarna, appena sfiorata, nel dialetto contratto e roco di un qualsiasi americano di provincia, lungo i viottoli della sua ‘protesta’. Ma una ragione c’era, in fondo a tutto questo: il perché una epoca intera si rispecchiava, si adagiava, si rifugiava nel suo regno. Bob era il primo: in qualcosa, in molte cose. Il primo a parlare senza chiedere scusa, il primo a buttare giù i pulpiti antichi per costruirne di nuovi, il primo a non offrire zuccherini e falsetti all’Amerika degli anni caldi, da Cuba in avanti. Il primo a farsi cercare, a non regalare i frutti conosciuti. A parlare di cose antiche con toni nuovi, e davvero tali. Un piccolo essere venuto ad inceppare gli ingranaggi di un Sistema sicuro di sé: a ricordare a tutti che fuori pioveva ed era ora di bagnarsi insieme, in quelle gocce scomode ma vere. Cantava come da tempo non si ascoltava più: senza ipocrite finzioni e formalismi ‘belli’ e inutili. Stordiva con la voce aspra e nasale, lacerava con gli strumenti intimi, nudi, sei corde e un’armonica sconnessa. Ma non si fermava lì: andava oltre, incatenando con il suo linguaggio, con la presenza misteriosa e vivida. Era protagonista sino all’inverosimile, coprendo senza requie tutte le ottiche da cui era dato di guardarlo. Uomo, predicatore, musicista. Tremendamente profondo. Quello che tutti sognavano e che nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di immaginare: il profeta vestito di sacco venuto ad indicare la retta via, a scomunicare, a umiliare, con il piglio del Giusto, di chi non ammette repliche ed esitazioni. Anche nei suoi abissi più teneri. “Se fosse vissuto duemila anni addietro non avrebbe potuto essere che un talmudista, un profeta. E se oggi è Dylan è solo perché la nostra epoca lo vuole così” scriveva di lui uno dei tanti ‘storiografi’. Niente di più vero. Sembrava calato nei tempi con lucida intelligenza, con una missione da compiere e nient’altro, davanti a sé: e anche il mito, che sin dagli inizi cominciava ad avvolgerlo quietamente, a farlo trascolorare, pareva logico, inevitabile, doveroso. Solido come nessuno: diverso. Dylan non era qualcuno da ‘copiare’ e basta, un James Dean, un Elvis Presley, la foto gigante in camera e l’autografo smozzicato. Ti dava qualcosa di più: molte cose di più. Ti accompagnava e ti indicava la strada: ti apriva gli occhi sui ‘padroni della guerra’, sulla religione come sistema di ipocrisie, Dio dalla parte di tutti e Hollis Brown a morire in una catapecchia, nell’Amerika del benessere che se ne frega. Era un’idea in movimento: era se stesso. Nessuno riusciva a scorgere più in là di questa visione turbinosa e immediata: nessuno sapeva distogliere lo sguardo dagli occhi magnetici di quell’uomo che ipnotizzava. Perché il Dylan sicuro, smagliante, incisivo, l’uomo con l’ordine rigoroso dei propri sentimenti, con la freschezza e la forza del proprio canto senza pudori era anche il supremo personaggio di se stesso. Era Bob Dylan e non Robert Zimmerman: parte e controparte di una recita inconscia. L’uomo voluto e quello reale. Il mito e la persona. Un gioco di rifrazioni, facce di una mente librata per aria che aveva confuso la finzione con la trama vera, il desiderio di sembrare con la necessità di essere. Tutto il mondo di Bob, le sue decisioni improvvise, le fughe e i travagli, l’apatia scossa dal furore, il sottile sarcasmo, va visto in questa dimensione: nell’ottica impietosa di una genialità perlomeno strana, il bisogno di rifarsi mille giorni su mille, la necessità di sfuggire da se stessi per darsi agli altri, con maschere severe ed affascinanti. Vivendo di se stessi, di riflesso. Il mito Dylan è tutto qui: si spiega e si morde la coda in questi concetti. Nella storia programmata e giocata a livello personale, senza il minimo spazio all’istinto improvviso. Alla spontaneità più velenosa. E tutto quello che noi pensavamo di lui, della sua sincerità, del suo meraviglioso regalarsi alla vita era vuoto e castrato, senza senso. Tutto era già deciso nella sua mente, travestimenti, meditazioni: crolli e resurrezioni. Bob allampanato con l’ombra di Woody Guthrie alle spalle, oppure arcigno e riccioluto come un angelo intellettuale, Dylan giovin signore, aristocratico del vecchio Sud sulla copertina di “Nashville Skyline”. Sono i tanti Dylan che Robert Zimmermann si è regalato e ci ha regalato. Proiezioni del suo protagonista, deciso a rimanere mito più che rimanere se stesso. Risoluto a giocare le sue carte magiche appeso al filo in tensione dell’ambiguità, dell’irrealtà: e in questa visione tutto quello che è stato, la musica, il messaggio, la sua figura nell’alba incerta del Suono Nuovo, tutto ha un sapore di miracolo. Di improbabilità. Uno scherzo per noi stessi. Un sogno. Pensare all’intrico non credibile di una situazione del genere: a quello che un ‘attore’ sul palcoscenico della vita è pur riuscito a far scaturire. Di questa parabola dell’uomo e dell’artista, degli enigmi poderosi, del labirinto di Dylan/Zimmerman, il libro di Scaduto vuol essere la narrazione. Scarna e chiara. Non mi piace tessere lodi e tantomeno giustificare i lavori degli altri: ma credo che pochi libri siano utili come questo. Necessari ed onesti. Su un altro piano rispetto a tante ‘agiografie’ che lo hanno preceduto, a tante sublimazioni letterarie, la vita e gli eroismi del Mito Dylan. Con quelle storie scalcinate che hanno fatto corona al fenomeno dell’artista, questa biografia non ha nulla da spartire. Perché qui è tutto piano, smitizzato, reale: e non c’è posto per l’esagerazione. I contorni scemano, le folgorazioni diventano attimi. L’epopea si fa storia viva e pulsante: cronaca. E anche Bob legato a se stesso, al suo desiderio di essere protagonista, finisce per trasfigurarsi e ritornare uomo, controvoglia: pieno di incertezze e di piccole meschinità, la verità dietro la maschera affascinante del profeta sicuro. Scaduto ha ha voluto tutto questo con un rigore critico che è solo onestà, non-ipocrisia. Spogliandosi dei panni comodi degli a priori, mitizzare il fenomeno o lapidare indiscriminatamente. Limitandosi ad analizzare senza preconcetti, sino all’atomo, al soffio di vita: partendo dalla vita e saltando a piè pari la siepe dell’appariscenza. E quello che ne risulta è un’operazione affascinante e nitida: qualcosa che prende forma nel corso stesso della vicenda, una smitizzazione venuta da sé, più spietata e precisa di ogni altra. Ma è uno spogliare l’idolo che lascia aperti mille spazi. E se Dylan dopo queste pagine non è più il tiratore infallibile, il paladino degli oppressi, l’onnipotente e il profeta ‘su per i cieli’, è pur sempre se stesso. Una persona, cioè, con una dimensione intera non riconducibile a nessun esempio. Un uomo con centomila cosa da dire. In fondo non faremo che un cambio: daremo via l’appariscenza, la fiaba esteriore, la corteccia, e avremo dentro di noi la consapevolezza di comunicare veramente con lui. Senza pretendere di averlo ‘capito’, costretto, inquadrato nelle nostre gabbie mentali: ma certi di essere perlomeno in sintonia, una volta per tutte. Certi di trovare ancora un milione di sensazioni nel clima tragico di “Ballad Of A Tin Man”, nell’ironia corrosiva di “Rainy Day Women”, nella poesia spettrale di “All Along The Watchtower”. E se non saranno le medesime emozioni, saranno certo più ricche, vere, incisive. Trecento pagine per capire questo: per togliere Bob dalla stanza degli idoli, di quegli esseri che “hanno sempre ragione / per quello che fanno e per quello che dicono /intoccabili e presi per buoni”, come lui stesso diceva. E per metterlo invece nella parte migliore di noi, dove i ‘nomi’ hanno una forma e una storia, e non ammuffiscono e non diventano vuoti. E riescono sempre ad insegnare qualcosa». (ottobre 1972, Riccardo Bertoncelli)

 

 

Discografia di Bob Dylan: 
Dischi in Studio

Bob Dylan (Columbia, 1962)
The Freewheelin’ Bob Dylan (Columbia, 1963)
The Times They Are A-Changin’ (Columbia, 1964)
Another Side Of Bob Dylan (Columbia, 1964)
Bringing It All Back Home (Columbia, 1965)
Highway 61 Revisited (Columbia, 1965)
Blonde On Blonde (Columbia, 1966)
John Wesley Harding (Columbia, 1967)
Nashville Skyline (Columbia, 1969)
Self Portrait (Columbia, 1970)
New Morning (Columbia, 1970)
Pat Garrett & Billy The Kid (colonna sonora, Columbia, 1973)
Dylan (Columbia, 1973)
Planet Waves (Asylum, 1974)
Blood On The Tracks (Columbia, 1975)
The Basement Tapes (Columbia, 1975)
Desire (Columbia, 1976)
Street Legal (Columbia, 1978)
Slow Train Coming (Columbia, 1979)
Saved (Columbia, 1980)
Shot of Love (Columbia, 1981)
Infidels (Columbia, 1983)
Empire Burlesque (Columbia, 1985)
Knocked Out Loaded (Columbia, 1986)
Down in the Groove (Columbia, 1988)
Oh Mercy (Columbia, 1989)
Under The Red Sky (Columbia, 1990)
Good As I Been To You (Columbia, 1992) 
World Gone Wrong (Columbia, 1993)
Time Out Of Mind (Columbia, 1997) 
Love And Theft (Columbia, 2001)
Modern Times (Columbia, 2006)
Together Through Life (Columbia, 2009)
Christmas In The Heart (Columbia, 2009)
Tempest (Columbia, 2012)
Shadows In The Night (Columbia, 2015)
The Cutting Edge (Columbia, 2015)
Fallen Angels (Columbia, 2016)
Triplicate (Columbia, 2017)

Raccolte
Bob Dylan’s Greatest Hits (Columbia, 1967)
Bob Dylan’s Greatest Hits Vol. II (Columbia, 1971)
Masterpieces (Columbia, 1978)
Biograph (Columbia, 1985)
The Bootleg Series Volumes 1–3 (Rare & Unreleased) 1961–1991 (Columbia, 1991)
Bob Dylan’s Greatest Hits Volume 3 (Columbia, 1994)
The Best of Bob Dylan, Vol. 1 (UK) (Columbia, 1997)
The Best of Bob Dylan, Vol. 2 (UK) (Columbia, 2000)
The Essential Bob Dylan (Columbia, 2000)
The Bootleg Series Vol. 7: No Direction Home: The Soundtrack (Columbia, 2005)
The Best of Bob Dylan (US) (Columbia, 2005)
Bob Dylan: The Collection (Columbia, 2007)
Dylan (Columbia, 2007)
The Bootleg Series Vol. 8 – Tell Tale Signs: Rare and Unreleased 1989-2006 (Columbia, 2008)
The Bootleg Series Vol. 9 – The Witmark Demos: 1962-1964 (Columbia, 2010)
The Bootleg Series Vol. 10 – Another Self Portrait 1969-1971 (Columbia, 2013)
The Bootleg Series Vol. 11: The Basement Tapes Complete (Columbia, 2014)
The Bootleg Series Vol. 12: The Cutting Edge 1965-1966 (Columbia, 2015)
The Bootleg Series Vol. 13: Trouble No More 1979-1981 (Columbia, 2017)

Album dal vivo
Before the Flood (live, Asylum, 1974)
Hard Rain (Columbia, 1976)
At Budokan (Columbia, 1979)
Real Live (Columbia, 1984)
Dylan & The Dead (Columbia, 1989) 
The 30th Anniversary Concert Celebration (Columbia, 1993)
MTV Unplugged (Columbia, 1995)
The Bootleg Series Vol. 4: Bob Dylan Live 1966, The “Royal Albert Hall” Concert (Columbia, 1998)
Live 1961-2000: Thirty-Nine Years of Great Concert Performances (Columbia, 2001)
The Bootleg Series Vol. 5: Bob Dylan Live 1975, The Rolling Thunder Revue (Columbia, 2002)
The Bootleg Series Vol. 6: Bob Dylan Live 1964, Concert at Philharmonic Hall (Columbia, 2004)
Live at The Gaslight 1962 (Columbia, 2005)
Live at Carnegie Hall 1963 (Columbia, 2005)
In Concert: Brandeis University 1963 (Columbia, 2011)
The Bootleg Series Vol. 13: Trouble No More 1979–1981 (Columbia, 2017)
Live 1962-1966 Rare Performances From the Copyright Collection (Columbia, 2018)

The Bootleg Series Vol. 14: More Blood, More Tracks (Columbia, 2018)