BLUE NOTE STORY: FIORE ALL’OCCHIELLO DEL JAZZ

La Blue Note Records, per tutti gli appassionati di jazz sinonimo di musica di altissimo livello, venne fondata negli Stati Uniti nel 1939 da due immigrati ebrei berlinesi scappati dall’Europa per sfuggire al nazismo, Alfred Lion e Francis Wolff, il primo appassionato di jazz fin dagli anni del soggiorno a Berlino, il secondo un fotografo ed amico d’infanzia di Lion.

Letteralmente il nome va tradotto come ‘nota triste’ e rimanda alla caratteristica distintiva del ‘sentimento’ blues e jazz. Per la label, destinata a lasciare il segno nella storia della musica, negli anni d’oro del jazz tra i Cinquanta e Sessanta, hanno inciso alcuni dei più grandi jazzisti di tutti i tempi. La Blue Note divenne in breve tempo conosciutissima negli ambienti musicali e il primo importante successo si fa risalire ad una versione di “Summertime” eseguita da Sidney Bechet e il suo quintetto. Dopo una pausa dovuta alla Guerra l’attività dell’etichetta riprese alla grande, riuscì ad imporre un proprio stile sempre moderno, seppur legato alla tradizione, divenendo presto un punto di riferimento per chiunque si muovesse in questo ambito ed incrementando il proprio parco artisti soprattutto nel campo del bebop. A iniziare dal pianista Thelonious Monk, titolare di alcuni importanti e seminali dischi incisi nella seconda metà dei ’40 e fino al 1952, al batterista Art Blakey che si affermò definitivamente al pianista Bud Powell, fino a Miles Davis che incise molto materiale negli studi di registrazione newyorkesi. Una ragione fondamentale per il successo della Blue Note e per la popolarità di cui godeva presso i musicisti era dovuta al fatto che l’etichetta era l’unica all’epoca, tra quelle indipendenti, a pagare i musicisti anche nei giorni di prova che precedevano l’incisione dei dischi; e questo è stato un forte elemento di garanzia di una migliore riuscita del prodotto finale. Negli anni 50 emersero nuovi talenti come Sonny Rollins, Horace Silver, Milt Jackson, Clifford Brown, i Jazz Messengers, Kenny Dorham, Sonny Clark, Kenny Burrell, Hank Mobley, Cannonball Adderley e l’immenso John Coltrane. Un tratto distintivo della filosofia Blue Note è stata costituita dalle copertine degli album, vere e proprie opere d’arte fotografiche e di design grafico, icone riconoscibilissime nello stile, che hanno segnato un’epoca e solleticato la fantasia collezionistica degli appassionati. Ricordiamo che a quel tempo si andava consumando il passaggio tra il 78 giri e l’LP che aveva la necessità (prima superflua) di avere una sua copertina identificativa da mettere in mostra nei negozi di dischi. A pilotare le scelte c’era Reid Miles, fotografo proveniente dalla rivista di moda Esquire, che stilizzò una grafica che puntava su forme geometriche, fotografie generalmente in Bianco & Nero o monocromatiche, sovente a raffigurare le situazioni ‘fumose’ dei locali o degli studi di registrazione. Si pensi ad esempio alla copertina di “Blue Train” di John Coltrane oppure a “Go!” di Dexter Gordon. Forse non tutti sanno che perfino Andy Warhol, tra il ‘56 e il ’57, lavorò per l’etichetta newyorkese realizzando le copertine di un paio di dischi: uno di Kenny Burrell ed uno di Johnny Griffin (“The Congregation”). All’alba degli anni Sessanta si fecero largo il sassofonista Dexter Gordon, reduce da una strenua lotta per sconfiggere la dipendenza dalle droghe, Jimmy Smith, ed un gruppo di talenti emergenti che avevano affinato le loro qualità alla corte di re Miles Davis ed ora erano pronti al debutto solista; e mi riferisco ai vari Herbie Hancock, Wayne Shorter, Ron Carter e Tony Williams. L’affezione di molti musicisti nei riguardi dei destini della Blue Note permise a tanti di essi di rendersi costantemente disponibili a prendere parte alle incisioni dei colleghi così da creare uno spirito di squadra notoriamente sempre presente nel jazz ma nel caso dell’etichetta ancor più pronunciato. Tra l’altro la Blue Note negli anni Sessanta non disdegnava di produrre anche dischi e brani che avessero un appeal radiofonico, ovvero che potessero giungere ad un pubblico più ampio di quello tipicamente coinvolto dal jazz, in una parola più commerciali. Intanto il jazz si evolveva e nuovi stili si configuravano all’orizzonte tra free jazz e avant-garde e la Blue Note fungeva bene da laboratorio di idee. Tra i più importanti album dell’epoca, e fuori dal solco hard bop fino allora seguito, segnaliamo “Out to Lunch” del sassofonista Eric Dolphy, disco che ha una delle copertine più celebri del jazz, quelli del pianista Cecil Taylor, di Sam Rivers, Bobby Hutcherson e Larry Young pronti a battere nuove strade – sebbene impervie – per fare breccia nei gusti dei consumatori di musica. Purtroppo negli anni Sessanta iniziava a scemare la ‘magia del jazz’, il suo successo rimase circoscritto ad un pubblico colto e di nicchia, ed anche le etichette più importanti dovettero fare i conti con una realtà ben diversa. Nel 1965 cominciavano ad affiorare venti di crisi e con essi si fecero evidenti le difficoltà ad andare avanti: la Blue Note venne acquistata dalla Liberty Records e Alfred Lion che ne era stato la guida per un quarto di secolo fece un passo indietro, ritirandosi, mentre Francis Wolff sarebbe invece rimasto a produrre dischi (assieme al pianista Duke Pearson) fino alla sua scomparsa avvenuta nel 1971. Qualcuno ha magnificamente sintetizzato l’impegno e la passione profusi da Lion e Wolff dicendo: “la Blue Note è stata semplicemente: due tedeschi che pubblicavano la musica che piaceva a loro”. Nel 1969 è stata la United Artists Records a rilevare la Liberty e più tardi, nel 1979, è stata la EMI a far suo l’intero catalogo della Blue Note. In questo periodo spazio a nuovi artisti che fino allora avevano svolto un oscuro lavoro di retroguardia: McCoy Tyner su tutti, poi i vari giovani e talentuosi, i nuovi eroi del jazz Michel Petrucciani, Joe Lovano, John Scofield, Bobby McFerrin, Jason Moran, Wynton Marsalis, Cassandra Wilson, Norah Jones. Negli ultimi anni si è proceduti alla ristampa ed alla rimasterizzazione dei classici album della Blue Note sotto l’accorta supervisione del geniale tecnico del suono Rudy Van Gelder con l’intento di far conoscere alle nuove generazioni di appassionati il tesoro di un catalogo importantissimo. Ed oggi la Blue Note Records – divenuta Blue Note Label Group – dopo essere stata la più importante divisione jazz della Capitol Records (ed è associata alle etichette Pacific Jazz Records e Roulette Records) e passata sotto il controllo della Universal.
Quest’anno si festeggiano i 75 anni dalla fondazione della Blue Note, una storia lunga tre quarti di secolo e che ancora può ‘raccontare’ un pezzo di storia musicale del jazz, degli anni più fecondi e ricchi di talenti di questo genere musicale, perché il catalogo della Blue Note rappresenta un archivio storico e culturale di assoluta rilevanza. Un doppio CD è stato pubblicato dalla Universal che oggi si prende cura di distribuire i dischi del catalogo. “The Best Of Blue Note” prende le mossa proprio da quel “Summertime” inciso dal Sidney Bechet Quintet, tra le prime storiche incisioni dell’etichetta e poi va avanti tra standard immortali – quali “Round About Midnight” (Thelonious Monk), “Blue Train” (John Coltrane), “A Night in Tunisia” (Bud Powell), “Moanin’” (Art Blakey & the Jazz Messengers), “Brownie Eyes” (Clifford Brown), “Tune Up” (Sonny Rollins) –,le più intriganti direzioni musicali sviluppate nell’ambito della casa – delle quali fanno fede pezzi come “Speak No Evil” (Wayne Shorter), “Song for My Father” (Horace Silver), “Black Byrd” (Donald Byrd), “Maiden Voyage” (Herbie Hancock) e “Chitlins Con Carne” (Kenny Burrell) – e le proposte di anni più vicini ai nostri rappresentate da “Cold Cold Heart” (Norah Jones), “Afro Blue” (Robert Glasper feat. Erykah Badu) e “Liquid Spirit” (Gregory Porter). Il tutto per un totale di 22 brani spalmati sui due dischi del prodotto. Non si tratta solamente di una celebrazione nostalgica del passato perché la Blue Note si è rimessa in gioco, con nuove idee e nuovi artisti che fanno ben sperare per un rilancio alla grande di questa ‘nobile’ etichetta.

 

(Luigi Lozzi)                                                © RIPRODUZIONE RISERVATA